La storia dell‘urbanistica tarantina subisce una svolta in conseguenza allo sviluppo del centro siderurgico nei primi anni Sessanta. La città, per assorbire la pressione insediativa, avvia un processo di urbanizzazione di difficile controllo e gestione; una delle direttrici di sviluppo si orienta verso sud-est, nell‘istmo tra mare Piccolo e mare Grande, secondo una maglia viaria relativamente regolare innervata sulla trama della città ottocentesca. L‘area idonea viene individuata all‘estremo margine orientale dell‘area urbanizzata. La facciata avrebbe costituito il fondale monumentale di via Dante, uno dei rettifili che portano al cuore della città storica, stabilendo un rapporto bipolare tra la cattedrale e la nuova con cattedrale. Il terreno necessario (6000 mq) è donato alla mensa arcivescovile dalla contessa d‘Acquino. La progettazione della concattedrale si inserisce in un più ampio ridisegno della rete parrocchiale, basata sui nuovi rapporti tra centro, periferia e campagne. Dal punto di vista ecclesiastico, la concattedrale doveva essere in grado di reggere il confronto con la cattedrale storica, per capienza e valore, ma era anche parrocchia del nuovo quartiere orientale: la monumentalità doveva quindi declinarsi con la sobrietà e con una funzionalità quotidiana, e quindi implicare costi sostenibili per la vita diocesana e parrocchiale. Forte, infatti, era l‘attenzione pastorale verso i ceti operai, culminata con il noto evento messa di Mezzanotte del Natale 1968, celebrata dal papa Paolo VI nel centro siderurgico.
Le scelte progettuali di Ponti, discusse con il committente, fin da subito sono orientate a una maestosità di impianto realizzata con linee semplici e materiali tradizionali. Già nel primo progetto, presentato alla Pontificia Commissione Centrale per l‘Arte Sacra in Italia (PCCASI) nel marzo 1963, si leggono sotto traccia i volumi del romanico pugliese e i caratteri costruttivi tradizionali di Ostuni, Martinafranca o Locorotondo. Ponti, giunto all‘età dei "grandi saggi" (come dirà Luigi Moretti recensendo la cattedrale al suo completamento), sa che l‘opera potrà essere il coronamento della sua carriera, da sempre profondamente attraversata dal tema religioso. Scriverà la figlia, Lisa: "Gli arcivescovi, i parroci, le suore che gli chiesero di costruire per loro ebbero, quando l‘ebbero, il genio cattolico di lasciarlo fare. Ne nacquero chiese, cattedrali, conventi pieni di letizia. La ‘chiesa‘ ha per Gio Ponti un grado di felicità in più della ‘casa‘." (Ponti 2002, p. 9). Per Ponti, fin dagli anni della Ricostruzione, "costruire una chiesa è un po‘ come ricostruire la religione, restituirla alla sua essenza" (Ponti 1957, p. 266) e ancora, a proposito della cattedrale: "L‘architettura religiosa è un fatto di religione, prima che di architettura: l‘ho pensato da sempre" (Ponti 1971, p. 12). Se quindi l‘architetto deve seguire fedelmente le istanze poste dal committente e dalla Chiesa, nondimeno è chiamato a un ruolo attivo e originale, ossia a partecipare al "moto intimo di penetrare l‘espressione religiosa sino a comprenderla e a manifestarla nella sua essenzialità e purezza", rendendo le opere architettoniche "un atto di coscienza della religione" (Ponti 1960, p. 43). È interessante la sottolineatura del parallelismo tra tali posizioni e l‘invito di Giovanni XXIII - nel discorso di apertura del Concilio, l‘11 dicembre 1962 - a preservare il Deposito della Fede rinnovandone le modalità di annuncio (Irace 2010, p. 432). Se dunque la critica è unanime nel sottolineare la religiosità e la personale adesione di Ponti al tema, emergono accenti diversi. Per Irace (2009, p. 21) l‘elemento religioso diventa "espressione diretta di un ottimismo del fare che non era l‘ingenuità accomodante di cui l‘avevano accusato i suoi critici negli anni Trenta, ma la fiducia nell‘operosità e nella perfezione tecnica della realizzazione", secondo "la tradizione del cattolicesimo lombardo di ispirazione sociale". Altre letture enfatizzano invece una lettura più sacrale, quasi teista, della sua opera, in particolare della nota "vela", che sovrasta e segna la concattedrale, espressione di una "religiosità non-liturgica" (Ponti 1990, p. 250). La dimensione non solo intimista o individualista della religiosità è la cifra del progetto per la concattedrale (a differenza di quanto proposto alcuni anni prima, ad esempio in Ponti 1952, p. 4); che presenta un afflato comunitario, se non universale: ogni persona, che entrerà nella cattedrale in cerca di "rifugio e difesa degli animi e degli intimi pensieri e delle verità della vita" dovrà ricevere omaggio, o rassegnazione, conforto, ausilio di virtù, serenità, nel sentirsi con tutti i viventi nel comune destino, e nel potersi anche sentire solo con Dio, in un luogo sacro" (prima relazione di progetto, 26 marzo 1964, in Torricella 2004, p. 6).