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Prolusione del Card. Angelo Bagnasco al Consiglio Episcopale Permanente - Roma, 26/29 settembre 2011


Venerati e cari Confratelli,

avvio questa riflessione facendo subito riferimento al clima che – a giudizio di molti osservatori, ma è anche nostra sensazione – appare emergente, ossia il senso di insicurezza diffuso nel corpo sociale, rafforzato da un attonito sbigottimento a livello culturale e morale. Un’insicurezza che si va cristallizzando, e finisce per prendere una forma apprensiva dinanzi al temuto dileguarsi di quegli ancoraggi esistenziali per i quali ognuno si industria e fatica, essendo essi ragione di una stabilità messa oggi in discussione, per cause in larga misura non dipendenti da noi. Non si era capito, o forse non avevamo voluto capire, che la crisi economica e sociale, che iniziò a mordere tre anni or sono, era in realtà più vasta e potenzialmente più devastante di quanto potesse di primo acchito apparire. E avrebbe presentato un costo ineludibile per tutti i cittadini di questo Paese. Spetta ad altri dar conto degli scenari che si presentano sul versante economico-sociale; per parte nostra siamo specialmente in apprensione per le pesanti conseguenze sulla vita della gente e gli effetti interiori di questa crisi che, a tratti, sembra produrre un oscuramento della speranza collettiva. Se ne vede traccia in certa perplessità trascinata e stanca, in una amarezza dichiarata, in un risentimento talora sordo, in un cinismo che denuncia una sconfortata rassegnazione. Circola l’immagine di un Paese disamorato, privo di slanci, quasi in attesa dell’ineluttabile. Ebbene, in quanto Vescovi non possiamo essere spettatori intimiditi; nostro compito è proporci come interlocutori animati da saggezza, interessati a «rompere questo determinismo dell’immanenza o, meglio, aprirlo alla concezione cristiana della storia e del tempo» (Giandomenico Mucci, Il discernimento dei segni dei tempi, “La civiltà cattolica”, 7 maggio 2011). Vorremmo cioè, con passo lieve, accostarci al cuore di ciascuno dei nostri connazionali, e dire la parola più grande e più cara che abbiamo, e che raccoglie ogni buona parola umana: Gesù Cristo. Noi lo annunciamo a tutti come discepoli e Vescovi: Egli è Dio con noi e per noi, affinché abbiamo a non inaridirci, stanchi prigionieri del nostro «io». No, non dobbiamo affliggerci come chi non ha speranza (cfr 1Ts 4,13): una speranza che «attira − dentro il presente − il futuro […]. Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura» (Spe salvi n. 7).
Perché questa dinamica salvifica si esplichi non ci stanchiamo, con l’aiuto dello Spirito, di esercitare il nostro arduo quanto irrinunciabile ministero, «di ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari modi di parlare del nostro tempo, e di saperli giudicare alla luce della parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venire presentata in forma più adatta» (Gaudium et spes, n. 44). E ciò che ci proponiamo umilmente di perseguire anche nell’attuale sessione autunnale del nostro Consiglio Permanente, agli inizi del nuovo Anno pastorale, e a congedo di una stagione estiva particolarmente densa di eventi e segni. Vorremmo che la nostra parola, se deve echeggiare nel cuore degli italiani e nell’opinione pubblica, riuscisse a risvegliare la speranza, e ad un tempo quella tensione alla verità senza la quale non c’è democrazia.
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