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Marittimi: quale famiglia? (G.Martino)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 5/10


La pastorale marittima si rivolge ai “nomadi del mare” che, per lavoro, lasciano la famiglia orfana di uno o più componenti per solcare i mari del globo. Non è un’affermazione “romantica” ma una dura realtà che costringe, marittimi e pescatori, a vagare i porti del mondo senza spesso sapere quando e dove toccheranno terra e comunque solo per poche ore. Difficile da raggiungere, questo popolo di “stranieri in ogni porto”, vive il senso di famiglia spesso in modo distorto.
Il marittimo è facilmente escluso dall’associazionismo, dalle cariche pubbliche, non può fare politica, non può svolgere funzioni sociali perché il suo continuo allontanarsi lo fa estraneo nel proprio paese, in alcuni stati tra cui l’Italia, il marittimo non riesce nemmeno ad esercitare un diritto basilare che è quello del voto.
Tutto ciò acuisce in lui un senso di solitudine che spesso sconfina in un pessimismo verso la struttura stessa della società. Ecco un primo male del lavoratore marittimo di qualunque etnia: essere uno straniero nel suo paese ed uno straniero nel suo lavoro.
Manca, essenzialmente, il senso di appartenenza. Sballottati continuamente su navi diverse con equipaggi di diverse etnie e culture si abituano al continuo divenire mentre agognano la serenità di una casa, di un focolare, di una famiglia che hanno lasciata orfana. é proprio questo senso di famiglia che alle volte si allarga sino a pensare che essa sia rappresentata dagli altri membri dell’equipaggio che condividono per lunghi mesi il lavoro, la vita e gli ambienti in una sorta di microcosmo che coinvolge tutta la vita in un imbarco. Altre volte questa precarietà porta al rifiuto, alla negazione che esista la famiglia se non come una illusione che ormai è diventata inutile continuare a perseguire.
Accomunando il mondo della migrazione con quello della mobilità Benedetto XVI, nel 2008, disse: «Innanzitutto mi piace riaffermare che la sollecitudine della Chiesa verso la famiglia migrante nulla toglie all’interesse pastorale per quella in mobilità. Anzi, questo impegno a mantenere un’unità di visione e di azione fra le due “ali” (migrazione e itineranza) della mobilità umana può aiutare a comprendere la vastità del fenomeno ed essere, al tempo stesso, di stimolo a tutti per una specifica pastorale, incoraggiata dai Sommi Pontefici e auspicata dal Concilio Ecumenico Vaticano II (cfr Christus Dominus, 18) e adeguatamente sostenuta da documenti elaborati dal vostro Pontificio Consiglio, come anche da Congressi e Riunioni. Non bisogna dimenticare che la famiglia, anche quella migrante e itinerante, costituisce la cellula originaria della società, da non distruggere, ma da difendere con coraggio e pazienza. Essa rappresenta la comunità nella quale fin dall’infanzia si è formati ad adorare e amare Dio, apprendendo la grammatica dei valori umani e morali e imparando a fare buon uso della libertà nella verità. Purtroppo in non poche situazioni questo avviene con difficoltà, specialmente nel caso di chi è investito dal fenomeno della mobilità umana».
La vita del marittimo porta a considerare davvero il mondo come una casa, a vedere gli altri per come sono piuttosto di come appaiono nella condivisione della vita lavorativa e abitativa ma anche nella frequentazione dei porti visitati, qualche volta, anche delle città toccate. Questa panoramica, a volte, privilegiata apre il cuore del navigante ad una sorta di senso di fratellanza tra i popoli. Spesso la diversità dell’altro si manifesta come una vera e propria occasione di arricchimento e di apprezzamento delle molteplici culture e modi di vivere. I conflitti che vivono quelli di terra non affettano quanti stanno a bordo che sono obbligati ad incontrarsi, a parlare, a riconoscersi come essenzialmente uguali almeno nella dignità e nelle più profonde aspirazioni. Riscoprire che apparteniamo tutti ad una grande e unica famiglia umana non è difficile per chi naviga. Rimane invece complicato o comunque diversa l’accezione del termine stesso di famiglia. Nel messaggio per la 97ma Giornata Mondiale sulle Migrazioni il Santo Padre ricorda che: “Per la Chiesa, questa realtà costituisce un segno eloquente dei nostri tempi, che porta in maggiore evidenza la vocazione dell’umanità a formare una sola famiglia, e, al tempo stesso, le difficoltà che, invece di unirla, la dividono e la lacerano”. Benedetto XVI ricorda, citando la Populorum Progressio, che “la mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli” è causa profonda del sottosviluppo e quindi “incide fortemente sul fenomeno migratorio”. “La fraternità umana - osserva il Papa - è l’esperienza, a volte sorprendente, di una relazione che accomuna, di un legame profondo con l’altro, differente da me, basato sul semplice fatto di essere uomini. Assunta e vissuta responsabilmente, essa alimenta una vita di comunione e condivisione con tutti, in particolare con i migranti; sostiene la donazione di sé agli altri, al loro bene, al bene di tutti, nella comunità politica locale, nazionale e mondiale”.
Si ripropone, insistentemente, il tema del buon samaritano. A chi gli chiede chi sia il suo prossimo Gesù risponde che non importa chi sia ma importa solo farsi prossimo agli altri. Mai, come oggi, la comunità cristiana è chiamata a vivere la propria missionarietà nel farsi prossima a quanti passano, sfiorano, a volte nell’invisibilità spesso dei porti, senza clamore ma con tanti bisogni altrettanto nascosti.
Farsi prossimo col popolo del mare significa salire sulle navi, anche solo per qualche minuto, per rendersi presenti, distruggere la distanza delle famiglie lontane annullare la distanza intermittente dal luogo dove ci si è formati, dove si è nati, dove ci sono i riferimenti sociali, e gli amici che fanno del lavoratore marittimo una specie d’apolide, cittadino di uno stato nel quale però difficilmente riesce ad esercitare i suoi diritti.
Allo stesso modo la Stella Maris, presente nei porti, si propone come una vera e propria “casa lontano da casa... famiglia lontano dalla famiglia”. Una vera e propria Chiesa che si rende capace, attraverso i molteplici servizi che vengono offerti ai marittimi, ma soprattutto con un cuore che vuole assomigliare al cuore di Dio, di “fare un ponte tra il mare e le case lontane”.
In realtà è proprio questa la funzione primaria dei nostri centri Stella Maris: soltanto una vera e propria comunità sperimentando di essere una Chiesa mandata, inviata dal Vescovo a portare il “lieto annunzio”, è espressione della Chiesa, della famiglia di Dio. Attraverso un cammino di fede e di apostolato i volontari della Stella Maris non trattano più il marittimo né come straniero e neppure come ospite ma si fanno essi stessi della stessa famiglia della gente di mare che incontrano, come San Paolo che si è “fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli” e si è “fatto tutto a tutti” (cfr. 1Cor 9, 19-22).
Con l’opera dei volontari Stella Maris, ogni nave ed il “Centro” presente nel porto diventa luogo teologico dove far sperimentare agli oltre 4 milioni e mezzo di marittimi che transitano ogni anno per le coste della nostra Italia, il senso di Chiesa. E la nostra capacità di diventare famiglia di Dio che fa sentire gli altri davvero “a casa”; davvero anch’essi della stessa famiglia, della famiglia di Dio a qualunque “Dio” essi dicano di credere.
Il Messaggio del Santo Padre di quest’anno termina ricordando che tutti coloro che sono in mobilità subiscono: «Il fenomeno stesso della globalizzazione, poi, caratteristico della nostra epoca, che non è solo un processo socio-economico, ma comporta anche “un’umanità che diviene sempre più interconnessa”, superando confini geografici e culturali. A questo proposito, la Chiesa non cessa di ricordare che il senso profondo di questo processo epocale e il suo criterio etico fondamentale sono dati proprio dall’unità della famiglia umana e dal suo sviluppo nel bene (cfr Benedetto XVI, Enc. Caritas in veritate, 42). Tutti, dunque, fanno parte di una sola famiglia, migranti e popolazioni locali che li accolgono, e tutti hanno lo stesso diritto ad usufruire dei beni della terra, la cui destinazione è universale, come insegna la dottrina sociale della Chiesa».
Per fare sentire il marittimo parte di questa unica famigli umana è fondamentale il ruolo delle comunità marinare, diocesi e parrocchie, che hanno la vocazione ad essere comunità ponte o comunità di frontiera fra il popolo del mare ed il popolo di terra, trovandosi ad essere partecipi di entrambe le realtà (secondo le indicazioni date dal Motu Proprio di Giovanni Paolo II, che include fra la gente di mare anche coloro che lavorano e vivono intorno al mare). Sono queste comunità che devono prendersi il carico pastorale del mondo del mare nelle sue varie espressioni. A seconda della situazione locale esse debbono preparare e seguire quelli che vanno per mare per guadagnarsi la vita, sostenere ed organizzare le loro famiglie, accogliere fraternamente i marittimi di passaggio, etc. La cura pastorale peculiare nei confronti della gente di mare deve essere assunta nell’ impegno pastorale ordinario della comunità e diventarne uno dei settori in cui esso si esprime. Un posto alla mensa eucaristica delle comunità-ponte, le comunità marinare, deve essere sempre apparecchiato (in senso lato) anche per i marittimi, per nutrire la loro vita di fede e la loro umanità e fondarne la testimonianza nelle relazioni di bordo e con le famiglie lontane.