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L’immigrazione, via all'unica famiglia umana (G.Gnesotto)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 5/10


L’orizzonte dell’unica famiglia umana, proposto nel Messaggio del Papa in occasione della 97ˆ Giornata Mondiale delle Migrazioni, si colloca alla radice della stessa natura della Chiesa, una e universale, comunione nelle diversità.
è un tema che rilancia la pastorale specifica in tutta la sua attualità, di fronte a contesti che per effetto delle migrazioni internazionali sono sempre maggiormente pluralisti dal punto di vista etnico, culturale e religioso.
In oggetto è posta anche l’educazione all’alterità e la via obbligata all’intercultura, per un mondo che si è fatto sempre più piccolo e a portata di mano non solo attraverso la realtà virtuale dei mezzi di comunicazione, la facilità dei trasporti e degli scambi commerciali, ma grazie all’incontro con persone di diverse culture, stabilizzate in contesti sociali fino a pochi anni fa fondamentalmente omogenei.
Infine incoraggia a riflettere e ad orientarsi nell’ampio e spesso controverso tema dell’integrazione tra gruppi culturalmente diversificati all’interno di un singolo contesto sociale.
Percorriamo sinteticamente questi aspetti.
Di tanti popoli un popolo solo
Sebbene segnate da sacrifici e sofferenze, generate da profonde ingiustizie, le strade delle migrazioni portano alla novità che sta nei sogni di Dio: fare di tanti popoli un solo popolo, di tante famiglie una sola famiglia.
Quando nell’enciclica dell’attuale Pontefice, Caritas in Veritate, al n. 67 si trova l’invito a dare reale concretezza al concetto di “famiglia di Nazioni”, altre volte “famiglia di popoli”, ne viene indicato il fondamento in quell’umanesimo integrale che ha la sua origine in Dio e il suo sviluppo nella vocazione “a far parte della famiglia di Dio in quanto singoli e in quanto comunità”.
I riferimenti biblici di tale vocazione si possono trovare in Gv 17,21, testamento spirituale di Gesù, che durante l’ultima cena prega perché “tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te”, e negli Atti degli Apostoli (Atti 2,1-11) sul giorno di Pentecoste, giorno fondativo della Chiesa, dove il soffio di vita dello Spirito dona forza e coraggio alla comunità primitiva per renderla strumento di riunificazione per l’intero genere umano.
A questi nuclei si riferiva anche il “Padre dei Migranti”, il Beato Giovanni Battista Scalabrini, con il concetto di “provvidenzialità” insito nel fatto umano delle migrazioni. In uno scritto del 1888 indicava il senso e il valore del fatto migratorio, pur intriso di vicende dolorose e drammatiche, in quanto è “una delle grandi leggi provvidenziali che presiedono ai destini de’ popoli” ed “eleva i destini umani, allargando il concetto di patria oltre i confini materiali e politici, facendo patria dell’uomo il mondo”.
Nel discorso che tenne al Catholic Club di N.Y. (15 ottobre 1901), il medesimo concetto è espresso in questa maniera: “Mentre il mondo si agita abbagliato dal suo progresso (…) mentre i popoli cadono, risorgono e si rinnovellano; mentre le razze si mescolano, si estendono e si confondono; attraverso il rumore delle nostre macchine, al di sopra di questo lavorio febbrile (…) si va maturando quaggiù un’opera ben più vasta, ben più nobile, ben più sublime: l’unione in Dio per Gesù Cristo di tutti gli uomini di buon volere”.
La pastorale specifica
Dio affida alla Chiesa il compito di forgiare in Cristo Gesù, grazie allo Spirito, una nuova creazione, ricapitolando in Lui (cfr. Ef 1,9-10) tutto il tesoro della diversità umana che il peccato ha trasformato in divisione e conflitti, affinché contribuisca “alla fondazione, nello Spirito della Pentecoste, di una nuova società nella quale le diverse lingue e culture non costituiranno più confini insuperabili, come dopo Babele, ma in cui, proprio in tale diversità, è possibile realizzare un nuovo modo di comunicazione e di comunione” (Erga Migrantes caritas Christi, n. 89).
L’attuale contesto di pluralità pone in dinamismo la stessa pastorale ecclesiale, sia sul versante del dialogo interreligioso, tra culture e religioni, sia maggiormente attraverso una cura pastorale specifica all’interno della pastorale ordinaria, secondo la bella espressione di Paolo VI: “alla mobilità del mondo moderno deve corrispondere la mobilità pastorale della Chiesa” (Discorso al Convengo europeo sulla pastorale dei migranti, AAS 65 (1965) 591).
Tale attenzione e responsabilità della Chiesa nei confronti degli immigrati cristiani si è espressa in varie strutture pastorali create in molti anni di esperienza (parrocchie personali, missio cum cura animarum, cappellanie per migranti), comunità di fede e di culto, in cui i migranti stessi diventano evangelizzatori, sia per quanto portano, sia perché evidenziano la natura universale della Chiesa.
Si tratta di un dinamismo missionario di reciproco arricchimento, perché mentre si offre la ricchezza di una tradizione millenaria della vita cristiana, si riceve l’entusiasmo con cui la fede è vissuta in altri continenti.
L’educazione all’alterità
Gli immigrati sono problemi da risolvere, dipendono unicamente da determinismi sociali? Oppure sono anzitutto uomini e donne da incontrare, la cui sete fondamentale è quella di essere riconosciuti come persone nella loro capacità di amare e di essere amati?
Basterebbero queste domande per porre a tema l’incontro con l’alterità come oggi avviene concretamente nella propria città, quartiere, condominio, luogo di lavoro, e non soltanto nella facilità delle comunicazioni, dei viaggi, dall’aumento delle informazioni, che hanno accorciato le distanze tra popoli e culture.
Ma rimane a tutt’oggi valida la lezione di H. Bergson ne’ Le due fonti della morale e della religione: “Ancora oggi noi amiamo naturalmente e direttamente i nostri parenti e i nostri concittadini, mentre l’amore dell’umanità è indiretto e acquisito. A quelli noi andiamo direttamente, a questa arriviamo solo attraverso un giro; perché solo attraverso Dio, in Dio, la religione invita l’uomo ad amare il genere umano”.
In Caritas in Veritate al n. 11 si legge: “Solo l’incontro con Dio permette di non vedere nell’altro sempre soltanto l’altro, ma di riconoscere in lui l’immagine divina, giungendo così a scoprire veramente l’altro e a maturare un amore che diventa cura dell’altro e per l’altro”.
A ciò va aggiunto quanto si trova nella Lettera agli Ebrei 13,2: “Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli”, in linea diretta con il racconto di Gen. 18,1-8 in cui viene descritto l’incontro tra Abramo e tre forestieri alle Querce di Mamre. Il racconto merita una breve chiosa, perché si tratta dell’icona biblica che ritrae il grande giorno dell’accoglienza e dell’ospitalità offerta allo straniero. Se rientrava nel dovere sacro di ospitare i forestieri in viaggio, l’azione del Patriarca, Padre della fede per le religioni del Libro, è indicativa sia per quanto dice l’Antico Testamento sull’ospitalità del forestiero fondata sulla medesima esperienza di esilio (Dt 8,19), sia su quanto dirà il Nuovo Testamento identificando il Signore con il forestiero (Mt 25,37 ss). Di fatto i tre viandanti di Mamre si identificano con il Signore nelle vesti del migrante, e si presentano davanti alla tenda di Abramo “nell’ora più calda del giorno”. La sottolineatura del tempo cronologico è rilevante, perché l’ora più calda del giorno non è il momento più adatto per le visite! Chi legge il racconto viene condotto a immaginare che forse, in circostanze normali o per filantropia, una certa ospitalità viene accordata, purché sia prevista, annunciata e ben fatta. Ma l’arrivo del migrante non si fa precedere da alcun preavviso, ed ha un prezzo. Per questo lo sguardo accogliente di Abramo, che si traduce subito in cordiale ospitalità, è un insegnamento eloquente ed indicativo.
L’intercultura
I quasi 5 milioni di immigrati regolarmente presenti in Italia sono portatori di circa 190 diverse provenienze, con altrettante lingue e varie culture. La grande sfida del millennio si gioca sulla cultura. In una relazione dal titolo “Ripartire da Cristo. La visione ecclesiale per una società multiculturale e interculturale”, che il Card. Paul Poupard tenne nel novembre 2003 in occasione del V Congresso Mondiale della Pastorale per i Migranti e i Rifugiati, si legge che “il terzo millennio è già caratterizzato dalla multiculturalità: persone nutrite da un’altra cultura, appartenenti ad un’altra religione, visibilmente differenti nel modo di vestire, di parlare, nella sensibilità e nella percezione del mondo e degli avvenimenti, sono diventate nostri vicini, nostri colleghi di lavoro, nostri amici. Gli ideali evangelici di libertà, uguaglianza e fraternità - così cari alla Repubblica Francese laica -, devono oggi affrontare un’incarnazione concreta, in una solidarietà umana che supera le frontiere delle culture all’interno delle nostre stesse società”.
è la caratteristica del nostro tempo: da società monoculturali a pluriculturali, a interculturali; una “scommessa” che è una delle sfide del nostro tempo, quelle che determineranno il futuro: la capacità di pensare e costruire una nuova “società coesa”, fondata non tanto sulla difesa di culture contrapposte, quanto piuttosto sull’incontro di culture, per favorirne la relazione, lo scambio, il rapporto. Una “disponibilità critica allo scambio”, in una maniera alquanto pacifica, pensando che nei secoli passati l’incontro tra le culture avveniva in maniera cruenta, con guerre e invasioni. Oggi avviene attraverso la via pacifica, anche se traumatica, dell’incontro con persone portate dai flussi migratori.
Si tratta di un incontro che si fonda sul reale presupposto che nessuna cultura contiene per intero i valori che danno senso alla vita, e se si valorizzano le diverse culture, se ne rivelano anche i limiti.
Nel medesimo tempo il dialogo interculturale “per essere efficace deve avere come punto di partenza l’intima consapevolezza della specifica identità dei vari interlocutori” (Caritas in Veritate, n. 26).
La scuola, in particolar modo, può essere l’ambito fondamentale per il riconoscimento dell’altro, il rispetto e la reciprocità.
L’integrazione
“L’unità della famiglia umana non annulla in sé le persone, i popoli e le culture, ma li rende più trasparenti gli uni verso l’altro, maggiormente uniti nelle loro legittime diversità” (Caritas in Veritate, n. 53). è la complessa questione dell’integrazione, all’ordine del giorno nelle agende politiche degli Stati Europei, nella ricerca delle dinamiche che garantiscano un fruttuoso incontro nell’ambito culturale, sociale, religioso.
è necessario immaginare qualcosa di nuovo e di originale rispetto ai modelli esistenti (assimilazione, pluralismo), tenendo come punti fermi la dignità della persona e dei suoi valori irrinunciabili.
Sarà un processo laborioso e progressivo che privilegia la via del dialogo e dell’incontro nei termini del reciproco rispetto ed apprezzamento delle rispettive diversità, destinate a tradursi in reciproco arricchimento. Un percorso biunivoco e non univoco, che deve vedere impegnati sia chi è accolto che chi accoglie.
Richiama il concetto di inter-azione, a significare incontri laboriosi, ricerca di pacifica convivenza, integrità, compito da portare avanti con intelligenza e responsabilità a vari livelli. Il tratto finale di un percorso che il documento “Educare alla legalità” (1980) sintetizza in questo modo: “Le condizioni storiche e sociali in cui viviamo esigono che dalla cultura dell’indifferenza si passi alla cultura della differenza e da questa alla convivialità delle differenze”.