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La famiglia migrante (G.Gnesotto)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 2/10


“L’Europa delle persone in movimento. Superare le paure, disegnare prospettive”: nel titolo dell’VIII Congresso Europeo Migrazioni della CCEE (Consiglio delle Conferenze Episcopali di Europa), che si è tenuto a Malaga (Spagna) dal 27 aprile al 1° maggio 2010, ci sono due imperativi che segnalano da una parte un’urgenza e dall’altra la necessità di superare una precomprensione, che nella famiglia migrante possono trovare risposte positive.
L’urgenza di superare la paura nei confronti delle migrazioni, che dalle impostazioni delle politiche migratorie nei Paesi europei si trasmette nell’opinione pubblica, può essere stemperata dalla famiglia ricongiunta nei territori di accoglienza, in quanto ambito principale dove si elabora l’inclusione sociale.
L’urgenza di disegnare prospettive per l’Europa delle persone in movimento, trova nella famiglia ricongiunta nei territori di accoglienza il superamento di almeno due prospettive fuorvianti: ritenere che l’immigrazione sia un fenomeno temporaneo e che sia un fenomeno da trattare con una logica emergenziale.
Le convenzioni internazionali
è anzitutto opportuno richiamare, nell’attuale contesto socio-culturale-economico europeo problematico nei confronti dei migranti, le disposizioni che si trovano nei Trattati internazionali, segnatamente nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (1950) agli articoli 8 (Diritto al rispetto della vita privata familiare) e 12 (Diritto al matrimonio), nella Convenzione sui diritti del fanciullo (1989) agli articoli 9 e 10, e nell’articolo 10 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (1966) in cui si afferma che “La protezione e l’assistenza più ampia che sia possibile devono essere accordate alla famiglia, che è il nucleo naturale e fondamentale della società, in particolare per la sua costituzione e fin quando essa abbia la responsabilità del mantenimento e dell’educazione di figli a suo carico”.
Ne deriva che si può affermare che “riconoscere e proteggere l’unità familiare come diritto soggettivo, pur con i limiti dettati dall’imprescindibile esigenza di garantire a coloro con cui lo straniero intende ricongiungersi dignitose condizioni di vita, è un obiettivo fondamentale della società civile”1.
Figli ed educazione
La migrazione familiare, nei casi più frequenti, è un processo dinamico a tre stadi, che alcuni hanno descritto nei termini delle “tre famiglie”. La prima famiglia è quella che vive insieme nel Paese di origine e che deve affrontare la prova della separazione; la seconda è quella che vive il tempo della lontananza e dei legami affettivi a distanza; la terza è la famiglia ricongiunta.
Siamo di fronte dunque ad una famiglia ferita, spaccata, e finalmente ricomposta. Indubbiamente diversa da quella iniziale, non solo perché il tempo ha fatto la sua parte, ma perché è cambiato il migrante, è cambiato il coniuge rimasto in Patria, sono cambiati gli equilibri all’interno e all’esterno della coppia, sono cambiati i figli che nel frattempo sono cresciuti.2
Parlare della famiglia nello spazio-tempo della migrazione significa verbalizzare l’assenza, il mancamento, le trasgressioni alle norme su cui si basa.
Non è nuova nella storia delle migrazioni la figura delle famiglie transnazionali. Ma diversamente dal passato ha sempre più preso rilievo il fenomeno della partenza di donne, che nella strategia dell’investimento delle risorse familiari e nella richiesta del mercato del lavoro, si staccano dalla famiglia, rovesciano i tradizionali ruoli relazionali con la figura maschile, affidano i loro figli alle cure di sorelle, figlie maggiori, nonne, cercando di esercitare la genitorialità a distanza.
In tali dinamiche, vanno evidenziati tre aspetti che incidono nella vita familiare e nell’educazione dei figli.
Anzitutto il ricongiungimento avviene spesso con ruoli rovesciati, in cui la donna ricopre il ruolo di protagonista, mentre l’uomo-marito-padre smarrisce il proprio ruolo e si colloca con minor autorevolezza e prestigio all’interno della famiglia.
Il secondo nodo problematico è rappresentato dai tempi lunghi per realizzare il ricongiungimento familiare. Una ricerca sulla prima città italiana per numero di immigrati, Milano, ha mostrato che la metà degli immigrati ha impiegato più di sette anni per il ricongiungimento dell’intero nucleo familiare. Fondamentalmente perché la normativa italiana riguardante l’immigrazione, in linea con quella europea, stabilisce dei requisiti rigidi per quanto riguarda il reddito e l’alloggio, ingenerando la sottomissione di un diritto fondamentale a requisiti economici.
Terzo aspetto che ne deriva è la dolorosa realtà dei “ricongiungimenti a rate”, specie con i figli. Uso il termine “a rate” per un riferimento economico legato alla disponibilità di un reddito adeguato per il ricongiungimento in Italia.
La normativa italiana, infatti, pone tra i requisiti necessari un reddito annuo non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale per ricongiungere un solo familiare, al doppio dell’importo annuo per ricongiungere due o tre familiari, il triplo per quattro o più familiari.
Per questo si sceglie di ricongiungere prima i figli che più si avvicinano alla maggiore età, 18 anni, perché le condizioni materiali per l’esercizio del diritto all’unità familiare è limitato ai membri della famiglia nucleare, cioè il coniuge ed i figli minori.
Prima dunque arrivano i figli più grandi e per ultimi quelli più piccoli, con delle ripercussioni psicologiche e affettive nei confronti dei genitori facilmente immaginabili, con faticose ricostruzioni di rapporti di intimità in terra di emigrazione.
Dal punto di vista educativo, queste lunghe parentesi di genitorialità a distanza possono pesare parecchio sulla capacità di ricostruire rapporti di confidenza, nonché di ottenere obbedienza.
Cambiano inoltre i parametri di trasmissione educativa, messi in crisi da valori familiari, linguistici, sociali e religiosi diversi dal proprio contesto d’origine.
Il dato che dà luce alle problematiche espresse è che la famiglia immigrata funziona come luogo importante d’apprendimento reciproco e di doppia mediazione linguistica e culturale. I figli spesso assumono il ruolo di mediatori, interpreti e portavoce dei bisogni familiari. La famiglia diviene non solo l’ambito ma anche il laboratorio dell’integrazione socio-culturale.
Invecchiamento nella migrazione
L’invecchiamento dell’Europa e l’immigrazione sono due fenomeni strettamente collegati. In un contesto europeo in cui la popolazione sta invecchiando (secondo le stime dell’Euristat nel 2050 il 30% avrà più di 65 anni), l’immigrazione attenua il progressivo invecchiamento con l’immissione di persone giovani e più fertili, rivelandosi come una risorsa anche sotto l’aspetto demografico.
La progressiva stabilizzazione delle famiglie migranti e il ricambio generazionale, pone a tema la rinegoziazione delle distanze familiari a livello intergenerazionale.
Se la prima generazione è impegnata a mediare sia l’impatto con l’esterno, che la gestione della relazione con i figli e con la famiglia d’origine, è la seconda generazione ad essere chiamata ad elaborare un percorso laborioso. La seconda generazione riesce ad adattarsi meglio e più velocemente rispetto alla prima generazione dal punto di vista culturale, ma paga in termini di estraniamento progressivo dalla famiglia e dai valori tradizionali.
La seconda generazione obbliga inoltre a ridefinire i confini della comunità nazionale e dell’attribuzione della cittadinanza.
Sul tema della cittadinanza, a fronte di un’immigrazione stanziale e di una crescente sensibilità per i diritti dei minori, quasi tutti gli Stati europei hanno introdotto, o rafforzato se già l’avevano, l’elemento dello ius soli, l’acquisto della cittadinanza per nascita sul territorio.
Raramente nei singoli ordinamenti viene applicato un criterio puro: nella maggior parte dei casi viene adottato un sistema misto.
Lo ius sanguinis è il criterio prevalente in Italia, Svizzera, Svezia. Lo ius soli è invece dominante in Francia, Paesi Bassi, Belgio, Regno Unito.
Anche quando l’attribuzione della cittadinanza è facilitata, va evidenziata la formazione di nuove identità, “identità con il trattino”, come ormai si dice per un’integrazione rispettosa delle differenze culturali.
Se i processi di inclusione non pongono il diritto alla propria identità e non si fondano su una “interazione positiva” basata sulla parità di trattamento e sull’apertura reciproca tra società ricevente e cittadini immigrati sorge il rischio della formazione di minoranze etniche svantaggiate e rancorose, tentate di isolarsi dal contesto esterno.
Matrimoni bi-nazionali e interreligiosi
Il tema dei matrimoni bi-nazionali e interreligiosi è diventato un fenomeno socialmente rilevante con il coinvolgimento dei Paesi implicati nei processi migratori internazionali: le statistiche ne indicano un aumento nella maggior parte dei Paesi dell’Europa Occidentale.
Nel contesto italiano durante il periodo 1995-2007 sono stati celebrati circa 300.000 matrimoni “misti” con un incremento annuo del 9,5%. Nel 2007 i matrimoni con almeno uno straniero sono stati complessivamente 34.600, pari al 13,8% del totale dei matrimoni celebrati in quell’anno3.
Le coppie miste, intese come matrimoni fra uomini/donne autoctoni e straniere/i, sono indicatori di comunicazione e integrazione interculturale, laboratori di convivenza tra identità culturalmente diverse.
Sono un bene prezioso per le dinamiche interculturali, ma fragile. Una recente indagine condotta in Italia ha evidenziato che almeno otto matrimoni misti su dieci non ce la fanno a tirare avanti. Troppe le differenze di cultura, di mentalità, troppe le divergenze su come educare i figli. Così, le nozze tra un italiano o un’italiana e uno straniero si sbriciolano più di quelli tra connazionali: 80% dei fallimenti rispetto al 50% di quello tra autoctoni.4
Vanno tenute in conto inoltre le possibili criticità legate al contesto in cui si vive, ai pregiudizi e stereotipi che con facilità accompagnano chi è ritenuto e sentito come uno straniero.
Un altro livello problematico è relativo ai rapporti tra i due Stati di appartenenza: spesso, infatti, mancano riferimenti e rapporti tra i rispettivi sistemi giuridici, segnatamente riguardo al riconoscimento reciproco dei contratti matrimoniali.
L’esistenza, infine, di matrimoni di comodo o di compiacenza, segnalano una delle strategie per aggirare le norme di ingresso o per accorciare i tempi dell’acquisizione della cittadinanza.
Laddove la dimensione religiosa assume una pur minima rilevanza le cose rischiano di complicarsi nella fase immediatamente successiva alla decisione di unirsi in matrimonio: senza esserne talvolta pienamente consapevoli gli sposi portano con sé visioni e concezioni differenti su molti aspetti fondamentali della vita matrimoniale e individuale, ponendo a confronto due mondi diversi, due concezioni diverse del matrimonio, dei rispettivi ruoli, dell’autorità paterna, del ruolo della madre.
In positivo, la coppia interconfessionale può contribuire ad avvicinare le comunità, creando occasioni di incontro, dialogo, scambio e momenti di comunione.
La normativa italiana riferita all’immigrazione è intervenuta sul matrimonio in maniera restrittiva.
Anzitutto la legge 15 luglio 2009 n. 94 (il cosiddetto “pacchetto sicurezza”) stabilisce che lo straniero che intende sposarsi deve esibire non solo il nulla osta al matrimonio rilasciato nel suo Paese d’origine, ma anche il documento della regolarità del soggiorno nel territorio italiano. Vieta quindi il matrimonio a coloro che non soggiornano regolarmente in Italia. In caso di matrimonio con un cittadino italiano, la cittadinanza potrà essere richiesta soltanto dopo due anni di residenza legale in Italia e dietro il pagamento di 200 euro.
Viene inoltre revocato il permesso di soggiorno qualora venga accertato che il matrimonio celebrato tra un cittadino italiano o comunitario e uno straniero sia avvenuto allo scopo di eludere le disposizioni contro l’immigrazione clandestina, e questo si verifica quando al matrimonio non ha fatto seguito l’effettiva convivenza tra i due coniugi e non è nata prole.
Infine, per allontanare i casi di poligamia, non viene consentito il ricongiungimento del coniuge, quando il soggetto interessato è coniugato con un cittadino straniero che soggiorna regolarmente con un altro coniuge nel territorio nazionale.
Conclusione
Ci sono più ombre che luci a carico della famiglia migrante, incognite sul futuro dei figli e sugli sviluppi delle potenzialità dei matrimoni bi-nazionali e interreligiosi.
Ma è di fondamentale importanza il diritto di formarsi una famiglia e il diritto di vivere in famiglia, e per questo i riferimenti al diritto internazionale sono imprescindibili. Allo stesso tempo andrà incentivata e rafforzata quell’advocacy (tutela) che da una parte tutela la persona migrante e dall’altra è espressione di una cura pastorale tesa al bene integrale dell’essere umano.
Faccio due esempi che provengono dall’azione della Migrantes e da un gruppo di operatori del diritto che prestano il loro servizio di volontariato anche conducendo Corsi di formazione giuridica per l’immigrazione che si svolgono in varie regioni italiane con lo scopo di diffondere la cultura della legalità ed il rispetto delle persone in movimento.
Il primo esempio riguarda i ricongiungimenti familiari, quando la norma che stabilisce tra i requisiti necessari per esercitare tale diritto il “reddito annuo” veniva interpretata come “il reddito che si dimostra dopo un anno di lavoro”. Questo significava dilazionare i tempi per chi ne aveva diritto. Con un’azione di advocacy, interpretando la normativa in vigore (in analogia con il visto per familiare al seguito) è stato possibile diffondere la prassi a livello nazionale che consente di presentare l’istanza in qualsiasi tempo, perché il reddito si può desumere dal contratto di lavoro.
Il secondo esempio riguarda le vittime della tratta degli esseri umani. Siamo riusciti ad inserire nella normativa sull’immigrazione l’art. 18 sul percorso di uscita dalla schiavitù e specialmente l’art. 27 del Regolamento di attuazione della norma per il recupero e l’inserimento sociale delle vittime, per la maggior parte dei casi ingannate e raggirate con la promessa di un lavoro lecito nel territorio italiano.
Termino richiamando l’attenzione ad un orientamento normativo che come la zizzania si sta estendendo a livello europeo e che nella normativa italiana prende il nome di “reato di clandestinità”. Colpisce molte famiglie, decretandone lo smembramento per molti anni, perché l’ingresso che poi si tramuta in permanenza irregolare nel territorio è generato sia dallo scavalcare le lungaggini burocratiche sia dall’ignoranza, che dall’inganno. Senza entrare nel merito giurisprudenziale, metto in evidenza che questo tipo di reato apre le premesse per teorizzare il “reato di solidarietà”, minando di fatto uno dei valori fondanti sia della società civile che cristiana.
 
1 Scevi Paola, Diritto delle migrazioni, Casa Editrice La Tribuna, Piacenza 2010, p. 185
2 Cfr. Simoni M., Zucca G., Famiglie migranti, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 15-22
3 Cfr. Dossier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes 2009
4 Indagine Istat, Il matrimonio in Italia, 8 aprile 2010.