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Famiglia e migranti nella prospettiva di Dt 5,12-16(G. Bentoglio)

Fondazione Migrantes

Il contesto
Come accade per altri temi, anche quello della famiglia compare con grande frequenza nella Bibbia, ma non possiamo aspettarci di trovare passi che ne offrano una trattazione esaustiva e sistematica. La Bibbia trasmette l’esperienza che parte dell’umanità ha fatto della presenza e dell’agire storico di Dio, contemplato in sintesi e in completezza nell’evento di Gesù di Nazareth. In lui si è manifestato il volto del Padre come icona della Trinità, poiché il Figlio Unigenito ne ha fatto per noi “l’esegesi”, come si esprime il prologo del Quarto Vangelo (Gv 1,18). Temi di rilievo per la vita e l’esperienza umana, dunque, sono continuamente al centro dell’attenzione biblica, sottoposti ad analisi, verifica e interpretazione, in visione di fede. Anche l’argomento della famiglia obbedisce a tale inquadratura, fornendoci elementi di varia natura per comprenderne le diverse dimensioni. In questo contributo desidero soffermarmi sulla versione del Decalogo che offre il libro del Deuteronomio, mettendo in luce quanto questo testo dice sulla famiglia e, in essa, quale attenzione sia data allo straniero (Dt 5,6-21).
Il testo
La prima parte del Decalogo (Dt 5,6-11) ha come tema il giusto rapporto dell’uomo con Dio, messo in luce attraverso comandi in forma negativa. Anche la sezione finale contiene una lista di precetti negativi (Dt 5,17-21), che hanno come argomento principale la relazione con il prossimo e che potrebbero riassumersi nella massima biblica: “non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te” (Tb 4,15), che il Vangelo preferisce formulare al positivo: “tutto quello che volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (Mt 7,12; Lc 6,31). Poiché queste “tavole” negative di divieti e proibizioni sono esplicite e dettagliate, resta da spiegare ciò che invece è necessario fare “in positivo”, sia per quanto riguarda la relazione con Dio che quella con il prossimo. Siamo così invitati a passare alla sezione centrale del Decalogo, che tocca proprio il tema della famiglia, dove sono due comandamenti presentati in forma positiva, con esplicita menzione anche del migrante (Dt 5,12-16).
Struttura letteraria e composizione di luogo
I due comandamenti centrali del Decalogo hanno propria configurazione letteraria. In effetti, essi sono redatti in apertura con forme verbali che hanno valore di imperativo positivo (osserva, onora), cui fa seguito il riferimento ad un comando dato in precedenza (come il Signore Dio tuo ti ha comandato) e terminano con il rimando ad una specifica finalità (perché…).
Questo quadro differisce dalla prima parte del Decalogo, che potremmo situare, in maniera simbolica, nel tempio, sede privilegiata dell’azione cultuale e dell’invocazione del nome di YHWH.
L’ultima parte del Decalogo, poi, si colloca anch’essa al di fuori della casa, nelle relazioni fra i cittadini: la piazza della città, simbolicamente, potrebbe essere considerata se non il luogo esclusivo almeno uno degli spazi tipici di tali relazioni pubbliche.
I comandamenti centrali, invece, si situano bene nell’ambito del focolare domestico, pur non cessando di essere “universali”, nel senso che sono destinati a tutti per il fatto che ognuno è “figlio”, tenuto quindi a onorare i genitori, e ognuno è chiamato anche - in forza della promessa divina - a diventare “padre” di numerosi figli.
A queste caratteristiche di stile possiamo inoltre aggiungere alcune considerazioni di ordine contenutistico.
Anzitutto, i due precetti sono fra loro complementari: il primo riguarda ogni Israelita, ma in modo privilegiato il padre, quale figura di autorità su figli, servi, immigrati e bestiame; il secondo è invece chiaramente indirizzato al figlio nel suo rapporto con i genitori. In questa parte del Decalogo, così, sono presentati in modo specifico i soggetti del precetto, che sono i componenti del gruppo familiare allargato, entro il quale trova giusta collocazione anche il forestiero.
In secondo luogo è chiara la delimitazione dell’ambito domestico. A dire il vero, il vocabolo “casa” non compare esplicitamente in questi versetti, anche se è menzionato nella frase introduttiva, quella che parla della liberazione dalla “casa di schiavitù” (5,6), e in quella conclusiva, dove si prescrive di non desiderare la “casa del prossimo” (5,21). Ad ogni modo, la sezione centrale si rivolge chiaramente alla famiglia, sia nel comando sul rispetto dovuto ai genitori, sia nel precetto del riposo festivo, dove compare il rapporto a “figlio e figlia, schiavo e schiava” con l’aggiunta che riguarda tutto il complesso familiare per esteso: “il bue e l’asino, il bestiame e il forestiero che sta entro le tue porte” (5,14).
Notiamo infine, nel confronto letterario con Lv 19,2-3, che questi due precetti sono uniti fra loro e posti all’inizio della precettistica del Codice di Santità, quella più vicina al Decalogo del Deuteronomio. Infatti, dopo l’introduzione generale (“siate santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo”: 19,2), leggiamo subito, al v. 3: “ognuno di voi rispetti sua madre e suo padre e osservate i miei sabati”.
L’onore da riservare ai genitori
La descrizione del rapporto tra figli e genitori è affidata, nel Decalogo, ad una terminologia abbastanza vaga, nella raccomandazione “onora tuo padre e tua madre” (Dt 5,16). In effetti, il comando di “onorare”, “rispettare”, “non maledire/non disprezzare” (che compare anche in altri testi, come Es 21,17; Lv 19,3; 20,9; Dt 27,16, Pr 20,20) non esplicita chiaramente quali atti concreti siano oggetto del precetto. Perciò, vi sono almeno tre linee interpretative che possono spiegare tale imperativo generico in maniera però che i diversi aspetti non siano da considerare tra loro incompatibili, ma complementari.
In primo luogo, dunque, si potrebbe cogliere un ordine indirizzato quasi esclusivamente ai giovani, con sottolineatura della sottomissione all’autorità della patria potestas, in sostanza un richiamo all’obbedienza, all’interno della famiglia, probabilmente ispirato da situazioni di ribellione e di conflitto tra la generazione dei giovani e quella degli adulti, comune a tutte le epoche (vedi ad esempio Dt 21,18- 21).
Una seconda via per intendere il comandamento è quella che richiederebbe a tutti, giovani e adulti, di “rispettare” i genitori in quanto strumento di Dio per la trasmissione del dono della vita e, soprattutto, per quello della Promessa. Così inteso, anzi, il precetto sarebbe rivolto specialmente all’Israelita adulto per il fatto che esige non tanto una sottomissione esterna e formale all’autorità dei genitori, quanto piuttosto la riconoscenza, fatta di omaggio e devozione, nei riguardi di coloro che trasmettono alle nuove generazioni il dono divino dell’Alleanza.
Infine, l’onore dovuto ai genitori potrebbe reclamare, molto realisticamente, l’obbligo dei figli nel venire in soccorso alle necessità materiali del padre e della madre, quando questi siano diventati vecchi e invalidi, incapaci quindi di provvedere da sé al proprio sostentamento (cfr. Sir 3,1-16).
Un insegnamento universale
Si tratta, quindi, di diversi elementi che possono entrare tutti a far parte dell’unico precetto, con il fine di esaltare la bontà delle relazioni all’interno della famiglia. Esso, tuttavia, mette in luce soprattutto atteggiamenti di valore simbolico, non tanto indicazioni di ortoprassi.
Infatti, poiché i genitori hanno il compito di insegnare e di tramandare la legge di Dio (cfr. Dt 6,4.20ss; 4,9-10; ecc.), l’assenso nei loro confronti è segno reale dell’obbedienza verso YHWH, vero Autore della Legge. In tal senso, è chiaro che il comandamento non vale esclusivamente per i minorenni, ma si applica a tutti.
Poi, è chiaro che il padre e la madre trasmettono la vita ai figli. Nel dono secondo la carne essi sono, però, anche gli strumenti di trasmissione del dono della Promessa, poiché è solo attraverso i genitori che, in Israele, si è “figli di Abramo”. Ecco, allora, che onorare i genitori implica soprattutto manifestare riconoscenza per la partecipazione alla storia di benedizione che passa di padre in figlio, di generazione in generazione. In effetti, questo comandamento collega esplicitamente l’onore dovuto al padre e alla madre con l’ottenimento di una vita lunga e felice, che si protrae nella discendenza (Dt 5,16b). Così, mentre il figlio compie gesti di gratitudine per la figliolanza carnale, esprime anche riverenza per la propria figliolanza dal Padre.
Infine, provvedere al sostentamento dei genitori anziani e aiutarli quando si trovano nel bisogno ricambia, nella logica della gratuità oblativa, tutto ciò che il figlio ha ricevuto da essi e che possiede, cioè la vita e l’eredità. Questa azione è parallela a quella compiuta dal capo-famiglia nei confronti della sua casa, nel giorno di sabato. Infatti, come il padre, nel giorno festivo, dà ai familiari quella libertà che egli stesso ha ricevuto, così i figli restituiscono ai genitori i beni che ad essi appartengono, proprio perché sono oggetto di mutuo scambio. Senza dimenticare che i figli, quando rispondono alle necessità dei genitori diventati invalidi e poveri, agiscono imitando il Signore, che si occupa sempre di chi è bisognoso, particolarmente attento “all’orfano, alla vedova e al forestiero” (Es 22,20-21; Sal 146,9).
La gioia permette a tutti l’incontro con Dio liberatore
Proprio quest’ultima annotazione ci permette di leggere ora il precetto che regola la festività del sabato (Dt 5,1215), con particolare interesse per le dinamiche familiari che vi sono implicate. Il comando “osserva il giorno di sabato per santificarlo” mette a fuoco, prima, l’aspetto delle relazioni con Dio e, poi, quello del rapporto di responsabilità all’interno del complesso familiare. Un imperativo positivo (“sei giorni faticherai e farai ogni lavoro”) e uno negativo (“ma il settimo giorno… non fare lavoro alcuno”) suggeriscono la distinzione fra due blocchi temporali, che prevedono il lavoro di sei giornate e il godimento del settimo giorno. Teniamo conto che la separazione è la modalità biblica con la quale si esprime il sacro, per cui separare il sabato dal resto dei giorni è già in qualche modo “santificarlo”. Le due realtà, però, prendono senso solo nel loro reciproco riferimento: senza la fatica dei giorni feriali, il riposo festivo non avrebbe senso; senza il sabato, il lavoro non avrebbe scopo. Ora, secondo la redazione deuteronomica, la ragione di questa prescrizione è la necessità di ricordare la liberazione dalla schiavitù egiziana (v. 15: “ricordati che sei stato schiavo nel paese d’Egitto”). Così, i sei giorni lavorativi sono simbolicamente assimilati al tempo della schiavitù. Il sabato, invece, corrisponde al momento della liberazione. Dunque, “fare il giorno di sabato” significa celebrare nel tempo, secondo una precisa scadenza, il ricordo dell’evento che ha conferito al popolo la sua natura di soggetto di diritto, dotato di autonomia e di assoluta dignità. Un evento “originario” che trova conferma nel testo parallelo di Es 20,8-11, dove il motivo del precetto rinvia al ricordo della creazione (“perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno”: v. 11). Nel giorno di sabato, Israele vive nella gioia ciò che si nasconde nella fatica dei giorni feriali. Vediamo allora che il giorno festivo, giorno del ricordo, consacrato a Dio (v. 14: “il settimo giorno è il sabato per il Signore tuo Dio”), ha una natura paradossale, dal momento che esso è la celebrazione del Signore e, nello stesso tempo, è affermazione della libertà dell’uomo. Si configura, in effetti, un “fare” (v. 15: “farai il giorno di sabato”), che ha come caratteristica di essere un “non fare” (v. 14: “non fare lavoro alcuno”).
Festa, libertà e uguaglianza
Ma il precetto del sabato non riguarda solo il rapporto con Dio; vi è un aspetto del comandamento che tocca la relazione tra il padre (e/o la madre) e la famiglia, cioè i figli, i servi, gli animali domestici e il forestiero immigrato in Israele, probabilmente alle dipendenze del capo-famiglia come salariato (cfr. Dt 24,14: “non defrauderai il salariato povero e bisognoso, sia egli uno dei tuoi fratelli o uno dei forestieri che stanno nel tuo paese, nelle tue città”).
Bisogna subito sottolineare il concetto ampio di famiglia, che oltrepassa quella visione moderna, a volte troppo angusta, che la riduce al nucleo essenziale composto da genitori e figli. La famiglia biblica comprende anzitutto il paterfamilias, figura maschile e/o femminile: in effetti, benché - per altri aspetti - la moglie sia sottoposta al marito, per quanto riguarda il sabato essa si identifica con il capo-famiglia. Seguono, poi, in stretta correlazione, i figli di ambo i sessi e le persone che sono a diretto servizio dell’andamento del clan familiare (servi e immigrati salariati), senza dimenticare i beni patrimoniali su cui il gruppo fa affidamento, in particolare il bestiame domestico. Tutti sono chiamati in causa con la finalità di instaurare relazioni di reciproca intesa, in prospettiva teologica.
Il padrone di casa, infatti, ha l’obbligo di concedere il riposo ai suoi familiari; egli deve usare la sua autorità non per imporre il giogo “servile”, ma per toglierlo. La diversità del sabato rispetto ai sei giorni lavorativi consiste, pertanto, nel fatto che in quel giorno si attua la “somiglianza” tra padre e figlio, tra padrone e servo, tra datore di lavoro e operaio, sia egli nativo del paese oppure immigrato. La clausola “come te” (v. 14; cfr. anche Lv 19,18) fa emergere proprio l’appello all’uguaglianza, che prende corpo nel rimando all’evento dell’Esodo, per il quale e nel quale tutti, senza differenza alcuna, hanno ricevuto la libertà. Di fatto, quel dono originario di Dio fissa le condizioni reali di una strutturale uguaglianza tra le persone. Ma l’evento fondatore, opera di Dio, rimane vuoto se non si storicizza, per così dire, nel giorno di sabato, mediante la libera decisione del capo-famiglia. Ecco, dunque, che la finalità del precetto non punta solo sulla inattività, ma soprattutto sull’apprezzamento e sul godimento di beni offerti a tutti dalla provvidenza di Dio.
La condivisione della festa
La condivisione del riposo, tra l’altro, è parallela alla condivisione della “gioia”, che è la finalità della festa, come si legge in occasione della “festa delle settimane”, in Dt 16,11: “Gioirai davanti al Signore tuo Dio, tu e tuo figlio e tua figlia e il tuo servo e la tua serva, e il levita che sta nelle tue città e l’immigrato e l’orfano e la vedova che sono in mezzo a te”. La stessa atmosfera di gioia avvolge la “festa delle capanne” e ancora una volta troviamo l’insistenza sulla compartecipazione allargata a quel senso di pieno benessere che la ricorrenza produce: “Celebrerai la festa delle Capanne per sette giorni quando raccoglierai il prodotto della tua aia e del tuo torchio, e ti rallegrerai nella tua festa, tu, tuo figlio, tua figlia, il tuo servo, la tua serva, il levita, il forestiero, l’orfano e la vedova che si trovano nella tua città. Per sette giorni celebrerai la festa in onore del Signore tuo Dio nel luogo che egli sceglierà; perché il Signore tuo Dio ti benedirà in ogni tuo raccolto e in ogni opera delle tue mani e sarai pienamente contento” (Dt 16,13-15). Accomuna il sabato e la festa la stessa terminologia, che prescrive l’osservanza, e lo stesso riferimento all’uscita dall’Egitto (cfr. 16,12: “ti ricorderai che sei stato schiavo in Egitto e osserverai e metterai in pratica queste leggi”). Da qui si può dedurre che la norma del sabato comanda di riconoscere, di ricevere e di condividere, nella salvezza che Dio ha operato, la pienezza di vita che si manifesta nella gioia. E questo è offerto a tutti indistintamente, perché ogni persona porta impressi i medesimi segni dell’“immagine e somiglianza” divina (Gn 1,26-27).
L’unica famiglia di tutti i popoli
In sostanza, le relazioni corrette e buone nell’ambito familiare sono quelle che riconoscono nel padre e nella madre la sorgente della benedizione, della vita, del dono della Promessa e dell’Alleanza. Da ciò nessuno è escluso: anche il forestiero ne è partecipe. Gesti di gratitudine e di riconoscenza ottengono a tutti una vita lunga e felice e, soprattutto, l’eredità della figliolanza divina.
Inoltre, il precetto del riposo nel giorno festivo, esteso dal padre alla famiglia allargata, diventa “segno” che attesta l’uguaglianza di tutti di fronte alla salvezza, fissando le basi per la costruzione dell’unica famiglia di tutti i popoli. Tale omogeneità non era chiara durante i sei giorni lavorativi, dove emergeva piuttosto il rapporto di “sudditanza” tra genitore e figli, tra padrone e servi, tra datore di lavoro e immigrati salariati.
C’è da notare, inoltre, che l’esplicita raccomandazione di concedere la gioia del riposo anche allo straniero fa della famiglia biblica il perno su cui si fonda l’apertura universale della salvezza: attraverso la famiglia, infatti, Dio dona il riposo anche alle genti straniere. Infine, il complesso familiare è anche responsabile del diritto alla sospensione del lavoro garantito perfino agli animali, come gesto simbolico che manifesta il rispetto e l’amore per la vita affidata alla famiglia nell’intero universo.
Conclusione
Il precetto di onorare i genitori e quello relativo alla festa settimanale, dunque, offrono una descrizione complementare e ampia della natura, dei compiti e delle responsabilità della famiglia biblica, chiamandola non solo a fare memoria di quello che Dio ha operato originariamente, ma anche ad imitare lo stesso agire di Dio: infatti, con il rispetto dei ruoli di ciascuno e con il gesto di fare e di concedere riposo, la famiglia manifesta l’essenza di Dio, il quale dona liberamente ad ogni creatura umana la stessa realtà di cui egli gode in pienezza.
In questa linea, l’interpretazione “spirituale” del sabato, attuata da Gesù, è quella che porta a compimento il senso della legge, nel senso che non conta tirar fuori dal pozzo il bue e l’asino o scioglierli dalla mangiatoia per condurli all’abbeveratoio se non si libera la persona umana da ciò che le impedisce di vivere e, anzi, promuove la sua dignità e i suoi fondamentali diritti, a prescindere dall’appartenenza etnica, dallo status giuridico o dalla condizione sociale (cfr. Mt 12,9-14; Lc 13,1017; 14,16; ecc.). In effetti, la perfezione della “giustizia” di cui parla Gesù è proprio quella che promuove l’altro senza attendere gratificazione (vedi Lc 6,32-35; 14,12-14), quella che talvolta agisce “nel segreto” (Mt 6,1-4) e che, in definitiva, sa scorgere il volto di Dio in quello del prossimo affamato, assetato, immigrato e bisognoso di assistenza, ad esempio nella sua condizione di indigente, ammalato o carcerato (Mt 25,35-36)