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Quel prete zingaro tra le baracche dei Rom

Fondazione Migrantes

 

udine (Migranti-press) - La sua roulotte la identifichi subito dall’enorme bandiera del Tibet piantata lì vicino. Per il resto la sua “casa” è assolutamente simile alle altre. Unico indizio: una piccola croce gialla a fianco alla porta, ma poca cosa rispetto alle decine di statuette della Madonna e di Padre Pio che fanno da poveri capitelli tra caravan e caravan. «Siamo degli ospiti qui dentro, perciò bisogna entrare con discrezione, senza pensare di avere la verità in tasca, e giudicare o voler cambiare loro la vita. Se entri con questo spirito, senza arroganza poi, forse, riesci a rimanerci», premette subito don Federico, per farci capire che i “gagi” (che nella cultura rom vuol dire i “non zingari”) qui sono bene accolti, basta ovviamente che non pretendano di comandare in casa altrui. Via Monte Sei Busi numero 11: per chi abita a Udine significa campo rom, anzi “Villaggio metallico”, come venne soprannominato questo campo nomadi a causa delle vecchie baracche di metallo edificate alla fine della guerra dagli inglesi. A ridosso di un piccolo camposanto, tra la campagna udinese e la massicciata della ferrovia, stanno alcune decine tra caravan, roulotte e baracche, distanziate tra loro da fazzoletti verdi, oggi coperti dal ghiaccio. E qui che da otto anni vive don Federico Schiavon, salesiano, 52 anni, veneto di San Donà di Piave, da poco divenuto direttore dell’Ufficio per la pastorale dei rom e dei sinti per Migrantes. Un incarico accettato a condizione di non dover abbandonare il villaggio.

 La sua parrocchia sono i 130 rom del campo (ma ce n’erano quasi trecento fino a qualche anno fa), tutti cittadini italiani di origine slovena, croata e istriana, alcuni dei quali discendenti da ex-prigionieri del campo di concentramento fascista della vicina Gonars, che ancora negli anni ’60 si raccolsero in quest’area alla periferia della città friulana messa a loro disposizione dal Comune. Alcuni di loro, col tempo, hanno optato per andare a vivere in appartamento, altri hanno scelto di rimanere qui. Vivono quasi tutti raccogliendo il ferro, ma qualcuno fa anche l’autotrasportatore o ha messo in piedi aziendine di servizio per il verde pubblico, offrendo lavoro ad albanesi e croati.

Poche Messe, molti Battesimi

 «La mia scelta? Un incontro casuale, la frequentazione assidua con alcuni di loro. Un rapporto che ti interpella, ti mette in crisi». Così un giorno don Federico s’è procurato una roulotte ed è diventato il prete degli zingari. Ha una baracca come chiesa per la preghiera e la recita dei salmi. Poche Messe, molti Battesimi. «Mi sono fatto “adottare” da una delle famiglie e m’hanno accettato tra loro. Non metto davanti il mio essere sacerdote o la religione, ma la condivisione della loro vita. Se scaturisce una conversione bene, altrimenti non importa», spiega don Schiavon. «Penso, comunque, che questo strano incontro abbia cambiato qualcosa: io ho potuto verificare che davvero tra gli emarginati, gli “scarti dell’umanità”, ci sono i “semi di Dio”. E loro, attraverso un povero prete, vedono forse una Chiesa che prova simpatia per loro, e un Dio che li ama. Poi, sul loro modo di vivere la fede non giudico, né voglio imporre nulla».

Proprio in questa continua mediazione tra principi da difendere e condizioni di vita precarie su cui chinarsi sta la scelta di campo di don Federico: «Facile, ad esempio, accusare gli zingari di rubare. Ma perché non dire anche che la loro voglia di trovare un lavoro viene continuamente frustrata dal pregiudizio? Qui a Udine basta che al Collocamento vedano che il richiedente risiede in via Monte Sei Busi e l’impiego te lo scordi. Facile denunciare le zingare che praticano l’accattonaggio, peraltro reato abrogato dalla nostra legislazione. Ma loro, in questo modo, sono apprezzate per essere capaci di contribuire al bilancio familiare. Spero che non si voglia scacciare i mendicanti dai sagrati delle chiese: danno un volto alla povertà e alla carità. San Francesco non creò forse un ordine dei mendicanti?».

 Quei pregiudizi duri a morire

E allora don Federico ha iniziato a picconare i pregiudizi che gravano sulla testa degli zingari. Poche settimane fa ha presentato i risultati di una ricerca realizzata per la Fondazione Migrantes dall’Università di Verona sugli stereotipi legati ai rom. In essa si dimostra che la loro nomea di “rapitori di bambini” è del tutto infondata. Per farlo s’è avvalso della collaborazione delle Procure italiane. Risultato? Non ci sono mai state condanne di zingari per questo reato. «Casomai sono loro che potrebbero pensare agli italiani come rapitori di bambini, dato l’alto numero di sentenze dei Tribunali dei minori che tolgono la patria potestà alle famiglie zingare con motivazioni discutibili». Basta guardare le cose da un altro punto di vista. Quello rom e del loro salesiano-zingaro. (A. Laggia)