» Chiesa Cattolica Italiana » Documenti »  Documentazione
Sinti e Rom: nomadi e ospiti? (S.Placidi)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 5/08


  Come vivere da cristiani quest’anno dedicato all’apostolo Paolo accanto ai Rom e Sinti, come ci interpellano, cosa chiedono al nostro essere uomini della parola e dell’incontro?

La storia dei Rom e dei Sinti è segnata da tanti tentativi di cancellare la loro presenza ed identità, più volte perpetrati nel loro cammino e in modo particolare anche in questo secolo, a partire dal porrajmos (l’olocausto dei Rom e Sinti della seconda guerra mondiale).

Il problema è rompere i muri di separazione e la Chiesa può essere il tramite per far sì che tutti si sentano accolti, divenendo forse anche un po’ “zingara” tra gli “zingari”.

Nella nostra storia di cittadini, si chiedeva recentemente Arrigo Levi, come possiamo dimenticare che l’Italia ricca terra d’emigranti è divenuta terra d’immigrazione e che almeno per un periodo anche noi fummo un poco “zingari”?

Gli “zingari” attraversando le nostre città suscitano ancora oggi inquietudine e paura. Rappresentano nell’immaginario collettivo comunque l’altro, il diverso. Le nostre città spesso pigre e frammentate hanno mostrato inaspettate capacità di compattezza e di mobilitazione proprio contro questi “cittadini”.

Fa riflettere come cristiani e uomini del nostro tempo il fatto che le nostre città non siano in grado di assumersi una minoranza così esigua.

Ancora oggi con molta fatica vediamo nello “zingaro” l’uomo senza una terra stabile, costretto ad una condizione di difficile precarietà. La città sedentaria non è fatta per gli “zingari”. Il “nomade”, fra l’altro non più tale, se non spesso forzatamente, a causa dei continui spostamenti e sgomberi, nel migliore dei casi è considerato un cittadino di seconda classe, sembra faccia parte solo del popolo dei poveri nelle nostre città e spesso è considerato il più povero tra i poveri. In realtà in molti casi la povertà è legata all’essere straniero, alla mancata acquisizione di alcuni diritti fondamentali, quali una abitazione stabile, la cittadinanza, un lavoro dignitoso, che non indicano una scelta, ma sono difficoltà concrete in una vita a volte debole e fragile da sostenere e comprendere meglio.

è necessario in questo tempo avvicinarci, stabilire un’amicizia, vincere la barriera del pregiudizio, capire dall’interno, condividere, cominciare a considerarli non più ospiti di questa terra, di passaggio, ma davvero cittadini e fratelli. La scelta di una vicinanza è fondamentale per capire l’abisso che a volte sembra separarci.

Non ci sono formule, c’è un problema di conoscenza e di rispetto per tante diverse identità culturali, nazionali, religiose. C’è bisogno di una grande attenzione, di memoria, comprensione delle difficoltà piccole e grandi della vita quotidiana. A questo ci richiama il Vangelo e la vita del nostro fratello Paolo che ha attraversato tanti mondi cercando di vivere la grande sfida della convivenza. Paolo è un uomo autenticamente figlio del proprio tempo, vive immerso in una cultura che ieri come oggi è multiculturale e globalizzata. Si presenta come un debole, e come testimone di Cristo. Ha scelto di andare nel mondo senza cercare il potere, ma sottolinea come Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole, per confondere i forti (1Cor 1,27).

Paolo non sfugge la sua debolezza, come scrive Andrea Riccardi nel suo libro su Paolo, ma esprime la “forza debole” del cristianesimo che non si vergogna della debolezza comune a tutti gli uomini. I deboli sono già beati, forti della grazia e della potenza di Cristo. Bisogna cominciare ad abbattere i muri che separano i mondi, perché a volte sono troppo alti.

Anche oggi nelle città dove abitiamo, gli uni accanto agli altri, vi sono mondi religiosi, etnici e culturali proprio come in quelle che Paolo visita nei suoi viaggi per predicare il Vangelo.

“Paolo va lontano e osa il confronto con mondi diversi perché crede di avere un tesoro di comunicare una verità che il mondo non conosce”. Il suo disegno riguarda tutti, uomini e donne, popoli, qualunque sia la lingua o la cultura o l’etnia. Nelle nostre società come nelle città di Paolo la tolleranza è il clima da costruire e favorire.

In un articolo Giafranco Ravasi di fronte ad alcuni episodi che si erano presentati a Roma in un quartiere della periferia, nei confronti degli zingari, negli anni Ottanta, ricorda la lettera agli Ebrei: “Abramo chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità e partì senza sapere dove andava. Un popolo che ha sempre avuto la coscienza di non avere una dimora stabile ma di cercane una futura” e li chiama fratelli maggiori. Andate da tutti i popoli e fateli miei discepoli. La salvezza è per tutti i popoli.

Ma come e perché sentirmi fratello di chi è lontano e diverso?

Paolo ricorda che non c’è né giudeo, né greco, né schiavo, né libero. In questo tempo in cui la globalizzazione rende tutti più simili si vive temendo fortemente di perdere la propria identità. è questa paura che ci fa vivere nelle nostre società con atteggiamenti aggressivi, ostili ed intolleranti. Sono tanti gli episodi che si ripetono e spesso riguardano da vicino in particolare la vita dei Rom e dei Sinti.

Paolo è un uomo cosmopolita, ma anche convinto in maniera forte della propria identità. Davanti alla sua vita sorge la domanda di “come sia possibile vivere al plurale, in una società a rischio di conflitti etnici e religiosi”. Attraverso la sua conversione ci insegna che il Vangelo può diventare la speranza di tutta l’umanità, senza distinzioni. Tante volte in questo tempo si crede che la via migliore per cercare la pace e la convivenza sia quella di “assimilare”, senza tener conto dell’identità e del valore dell’uno o dell’altro gruppo. Ma il messaggio di Paolo ci insegna invece che la pace si fa dall’amore e dal rispetto per l’altro.

La missione cristiana che Paolo porta avanti è fatta di un amore che si interessa per tutti.

Paolo non si ferma davanti ai muri ed agli abissi che dividono le diverse culture. Questo è un insegnamento importante in questo tempo in cui l’intolleranza nei confronti dei Rom e dei Sinti, la minoranza più numerosa d’Europa, sembra essere uno dei problemi sociali più urgenti nel vecchio continente.

Un altro grande insegnamento è quello dell’importanza della pratica dell’ospitalità. Nei lunghi viaggi di Paolo nei continui spostamenti nelle città e nei villaggi dove si erano formate comunità cristiane, i missionari avevano continuamente bisogno di accoglienza ed ospitalità concreta per poter compiere il proprio ministero. Paolo nella lettera ai Galati ricorda come è stato accolto “mi avete accolto come un angelo di Dio, come Gesù Cristo” (Gal 4, 14).

La premurosa e festosa ospitalità anche in una circostanza difficile, consente a Paolo di annunciare il Vangelo; questo ricorda, anche a noi che viviamo accanto ai Rom quante volte è stata offerta l’ospitalità, dai nostri fratelli Rom e Sinti, nonostante queste nostre città siano spesso inospitali. Quante volte siamo accolti, durante le feste e i momenti conviviali, o nelle visite improvvise dai Rom che, anche se in difficoltà per la mancanza di una abitazione sicura e certa, con poche cose da offrire e con case fatte a volte di instabili baracche, ci hanno mostrato come l’ospite sia sempre “sacro”.

Paolo, nella lettera a Filemone, un suo ricco amico cristiano, scrive chiedendo di accogliere come un fratello carissimo, Onesimo, in nome della carità, facendo appello all’amicizia perché nel Signore lo accolga, come accoglierebbe se stesso.

E sottolinea, inoltre, come nell’ospitalità le donne siano particolarmente benemerite. Ricorda la protezione da parte delle donne verso i cristiani che si trovano in difficoltà e nel bisogno e verso coloro che come Paolo sono forestieri (cfr. Rom 16).

Quando Paolo parla della “carità autentica”, nella lettera ai Romani, indica in particolare alcune qualità, tra le quali sottolinea, ancora una volta, l’ospitalità: “siate solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità” (Rom 12,13). è un aspetto fondamentale che si esprime facendo festa, essendo generosi e attraverso un amore gratuito, come quello di una madre. L’ospitalità è l’aspetto più concreto di un amore disinteressato. L’accoglienza cristiana supera per amore ogni divergenza tra cristiani che rischierebbero di sentirsi isolati ed esclusi . E ancora nella lettera agli Ebrei Paolo esorta i suoi destinatari “Perseverate nell’amore fraterno, non dimenticate l’ospitalità, alcuni praticandola hanno accolto degli angeli” (Eb 13,1).

Giovanni Paolo II ricordava che “i nomadi approfondiscono il senso dell’ospitalità e della solidarietà e contemporaneamente si rafforzano nella fede e nella speranza di Dio”.

Per Paolo il programma di portare il Vangelo sino ai confini della terra diviene realtà anche attraverso l’accoglienza, le sue visite ed i suoi viaggi sono un modo concreto per proteggere e portare conforto a tanti. L’ospitalità è un frutto visibile e fecondo dell’amore di Dio che rende credibile il messaggio cristiano, perché è una predicazione che parla in modo molto concreto agli uomini. Il cristiano è colui che ha creduto all’amore che Dio ha per gli uomini.

L’essere stranieri acquista per chi crede un senso nuovo, perché si è chiamati ad abitare il mondo secondo la logica della gratuità e della grazia. Si è stranieri in quanto ospiti e ospitanti. Il sogno di Dio è quello di un’umanità fraterna.

Dio sta alla porta e bussa perché anche lui, straniero per eccellenza, chiede di essere ospitato con la pazienza dell’amore, che non si stanca mai di bussare e di attendere. Negare l’ospitalità allo straniero è negarsi all’incontro con Dio. Non ci sono stranieri, né ospiti di passaggio per Dio, ma solo figli e fratelli.