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Sulle orme di S.Paolo (C.Simonelli)
Riflessione biblica GMM

Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 5/08


  Un Anno Paolino è una buona occasione per interrogare con nuove domande e da nuovi punti prospettici scritti che già sono familiari. Tutti si stanno attivando e già si possono frequentare corsi e convegni, nonché trovare pubblicazioni nuove o rinnovate. I nostri punti di vista si collocano in questa già vasta sussidiazione senza pretesa di completezza né di competitività: vorrebbero solo attraversare la questione con gli interessi, le domande, le urgenze che provengono dal mondo della mobilità umana.

Saulo/Paolo: un uomo tra due mondi

Saulo di Tarso educato alla scuola farisaica di Gerusalemme scrive nel greco pass–partous utilizzato per comunicare nel Mediterraneo ellenizzato del I secolo. Anche senza introdurre l’ulteriore dato della sua cittadinanza romana, non da tutti accolto come storicamente provato, ce n’è di che interessare il mondo perplesso e contaminato di questa nostra alba di terzo millennio. Il suo altro nome, Paulus, è di derivazione latina: segno che la sua famiglia aveva reso qualche servizio all’Impero e ne aveva ricavato nome e cittadinanza? Segno di una sua particolare relazione quasi “adottiva” con il console (At 13,7) Sergio Paolo?  Scelto invece per l’assonanza con quello di nascita, non diversamente da come accade a tanti immigrati che vedono trasformato e spesso storpiato più o meno bonariamente il proprio nome dai compagni di cantiere? In ogni caso, con la sua stessa esistenza è testimone che il giudaismo della sua epoca è un mondo di mondi. Come è noto, anche al di fuori degli studi specialistici, gli scritti che vanno sotto il suo nome non sono probabilmente tutti di suo pugno ed – ulteriormente – il Paolo narrato da Luca negli Atti rappresenta una fonte importante ma non, ovviamente, di prima mano. Anche limitandoci però in prima battuta alle grandi lettere la cui paternità non è in discussione, troviamo una specie di scheda personale interessante: quanto alla nascita ebreo, educato sotto la legge, quanto all’appartenenza, fariseo (Gal 3,5–6; 2Cor 11,22). Luca fornisce altri dati, indica altri percorsi: Gerusalemme in cui l’appartenenza farisaica si specifica come “alla scuola di Gamaliele”; Tarso, appunto; Damasco; Antiochia. Ma anche senza questo supporto si individua in lui un ebreo non palestinese, familiare dunque alle dinamiche linguistiche e più ampiamente culturali che hanno caratterizzato il giudaismo ellenistico anche prima della dispersione seguita alla distruzione del Tempio (70 ev.) e poi di Gerusalemme stessa (135 e.v.).

Il giudaismo – come per convenzione largamente accolta viene indicato l’ebraismo tra il Secondo Tempio e il VI secolo dell’era volgare – conosceva infatti da tempo una diaspora, che aveva seguito in parte la traiettoria delle deportazioni e delle conquiste da parte degli imperi siro–babilonesi, dall’altra le dinamiche di ogni migrazione alla ricerca di diversi modi di vivere e mantenersi legate probabilmente al commercio e di conseguenza alla logica dei ricongiungimenti familiari. A questo mondo giudaico aperto al confronto con l’universo greco, per quanto ci riguarda, il cristianesimo deve molto. Esperti di traduzioni e di confronto avevano già prodotto opere e riflessioni importanti: valga per tutte la traduzione in greco della Bibbia, versione nota come “dei LXX”. Gerusalemme restava comunque un punto di riferimento importante, non solo per il Tempio, ma anche per la formazione, come mostra il riferimento alla scuola farisaica di Gamaliele (dell’uso improprio del termine fariseo, abbiamo già imparato a fare ammenda, si spera, con un certo successo. Non è infatti sinonimo di ipocrita, ma rimanda  ad un importante movimento “laico” – se può passare il termine, inteso nel senso di non legato al sacerdozio levitico e al servizio del Tempio – di persone impegnate a scrutare la Torah). Da detta scuola, dopo la distruzione del Tempio, prenderà soprattutto vita l’insegnamento rabbinico.

L’apostolo delle genti, prima ancora, dunque, di intraprendere dei viaggi missionari e ben prima di dare indicazioni sull’annuncio “a quelli fuori del giudaismo”, è un uomo che ha sperimentato in se stesso appartenenze plurali, traduzioni di parole e interpretazioni di significati, luoghi di residenza che sono anche di non totale appartenenza.

I piedi e la Parola: l’evangelizzazione

«Come sono belli i piedi di quelli che portano buone notizie» (cfr. Is 52,7; 40,9). La traduzione greca di questo ben noto passo profetico porta proprio il verbo “evangelizzare”: chi evangelizza porta una buona notizia, come all’inizio di Mc 1,1: « Inizio della buona notizia di Gesù, Cristo e Figlio di Dio»; come in Lc 4,18 (che cita Is 61,1–2) «lo Spirito del Signore è sopra di me, mi ha consacrato con l’unzione, mi ha mandato a dare buona notizia – ad evangelizzare – i poveri». Non diversamente da così va compreso il grido che esprime l’ansia di Paolo: «Guai a me se non evangelizzo!». Osservazione etimologicamente scontata, ma forse non altrettanto scontata dal punto di vista del significato: l’attività dell’apostolo, descritta in Atti, ma presente con ancora maggior forza nelle sue proprie lettere, è dettata dal desiderio di comunicare una buona notizia, e cioè che Dio ci viene incontro in Cristo in una maniera così radicale e totale, che ne viene fatto esplodere ogni confine etnico religioso ed ogni graduatoria redatta sulla base di buone azioni/come punti di merito. In questo modo raccogliamo sia l’istanza di fondo – annunciare la salvezza in Gesù Cristo –  che è il tema teologico del primato della grazia e dunque della fede, caratteristico dell’epistolario: «Sapendo che l’uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge, poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno» (Gal 2,15).

Questo ha un fondamento, rappresentato dall’essere in Cristo, ed ha una conseguenza, che è l’apertura dell’esperienza ecclesiale al di là dei confini etnici religiosi di genere. Ma prima di raccogliere queste due dimensioni, è importante sottolineare l’aspetto gioioso di tutto questo: non si tratta di un’impresa giuridicamente cogente, non si tratta di una conquista/riconquista del mondo, non si tratta di un minaccioso avviso. Si tratta di una buona notizia, di una parola decisa e affabile, della comunicazione che presso Dio non ci sono esclusioni, che Dio è più grande di ogni  peccato. Si tratta appunto di presentare la buona e bella notizia della grazia a della salvezza: «o stolti Galati, chi vi ha incantato? .. Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù» (Gal 3,1; 5,1)

Una mistica per tutti: essere in Cristo

«Non ho certo raggiunto la meta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla raggiunta. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta» (Fil 3,12–14). In questa luce invece riacquistano spessore, senso e dolcezza, anche nelle espressioni più radicali: la “grazia” non è una “cosa che non bene si capisce ed annulla la legittima responsabilità degli attori” (come a volte, magari facendo qualche incontro biblico ci viene restituito dai partecipanti). La sua formulazione è piuttosto la gratitudine di chi si sente amato e perdonato e in questa calda e profonda relazione riformula pensieri ed azioni. Nello stesso modo allora, come sopra si accennava, “battersi” perché il Vangelo arrivi a tutti è rispondere ad una gioia traboccante, che non può essere tale se non condivisa. Su questa base anche l’affermazione della relatività di ogni confine non è legata a buonismo o romanticismo – né d’altro canto, è benigna concessione da parte di qualche terrena ancorché alta autorità: ognuno ed ognuna è chiamato “in Cristo” e per questo non esistono “serie A e serie B”, in una comunità il cui essere corpo è radicamento cristologico e tratto pneumatologico (cfr 1Cor 12,1–13).

Giudei e greci, uomini e donne

«Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio né femmina, perché tutti voi siete una cosa sola, in Cristo Gesù» (Gal 3,28). Questo versetto, che ha diversi paralleli nell’epistolario paolino e anche “deuteropaolino” (ad esempio in Col 3,11), è collocabile fra i passi “prepaolini”, cioè fra quelle formulazioni della fede cristiana che probabilmente l’apostolo stesso ha ricevuto quando ha, a propria volta, fatto l’esperienza di essere evangelizzato (cfr 1Cor 15,1–5), battezzato (appunto Gal 3,28, 1Cor 12,13) e introdotto all’esperienza eucaristica (1Cor 11,23–26). L’orizzonte del testo è poi presente in passi che sono, per le tematiche che abitualmente ci convocano, pane quotidiano: mi riferisco evidentemente all’idea che nella Chiesa e per la Chiesa nessuno è straniero/estraneo: «non siete più stranieri–estranei (xenoi) e stranieri di passaggio ma siete pienamente concittadini (synpolitai) dei santi e “familiari di casa” (oikeioi) di Dio, costruiti come casa sul fondamento...» (Ef 2,19).

Queste parole risuonano nelle nostre comunità da millenni, ma sono sempre nuove, perché le situazioni da cui le leggiamo sono rinnovate e, come sappiamo dal detto patristico cui allude anche la Dei Verbum: “Scriptura crescit cum legente” (S. Gregorio Magno), non nel senso che “cambi” di significato, ma nel senso che il lettore/ comunità entra nel testo con la propria storia e le proprie domande ed il testo “risponde” con nuova luce. Per questo oggi questi brani bussano alla nostra situazione e, con dolcezza e forza, si potrebbe dire, la giudicano, cioè, mentre la esortano a non lavorare al di sotto del proprio statuto “in Cristo”, la confortano, mostrando che “è possibile” farlo, anche se costa un po’ di fatica e richiede un po’ di coraggio.

Paolo, il paolinismo e i suoi significati: Atti 29

Proprio con questa consegna, che apre il presente verso un futuro possibile anche se impegnativo, concludiamo queste brevi note, richiamando attraverso un titolo evocativo anche una serie di questioni storiche di un certo interesse. Il titolo evocativo è evidentemente l’allusione a quel capitolo di Atti... che non c’è! Mi ispiro qui ad un gruppo di riflessione che si ritrovava alcuni anni fa presso una casa di Comboniani. Il senso è chiaro: la finale aperta del libro di Atti è un modo di lasciare intendere che la storia è consegna e che in quel solco ci siamo tutti e tutte: «Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso in affitto e accoglieva tutti quelli che venivano da lui, annunciando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù, con tutta franchezza e senza impedimento» (At 28,28). Le questioni storiche, cui si può solo accennare, si potrebbero indicare con qualcosa come paolinismo, antipaolismo e genealogie. In parte ci si è già confrontati con esse anche in questo stesso percorso: il corpus di scritti legati al nome di Paolo è un insieme plurale, che comprende anche la lettura lucana di Atti, primo esempio di paolinismo, cioè di un’eredità accolta e fatta fruttificare. Questa dimensione è però presente anche nelle “lettere”: non tutte quelle che nel Nuovo Testamento sono sotto il nome di Paolo1, sono riconosciute “di suo pugno”: questo dato, lungi dal creare ansia, mostra, al contrario, la fecondità di un messaggio, che crea, appunto, una sorta di genealogia autorevole, proposta con un procedimento (pseudoepigrafia = mettere uno scritto sotto il l’autorità e dunque il nome di un altro) che nell’antichità suonava meno strano di quello che potrebbe apparire oggi. C’è poi anche un antipaolinimo, estremamente moderato, ad esempio in Giacomo2, molto forte invece in scritti apocrifi che non sono entrati nel canone3. Tutto questo “è” Atti 29: la consegna a noi di una speranza radicata nel Cristo, di un compito serio e gioioso nello stesso tempo ed anche della cura di una comunità nella quale, per dirlo ancora con un testo patristico, «la diversità della prassi conferma l’unità della fede» (Ireneo di Lione, II sec.) e la pluralità degli approcci non maledice Babilonia ma benedice Pentecoste.

1 Ci si riferisce, è noto, a Efesini e Colossesi, soprattutto, oltre che alle cosiddette Pastorali (Tito e le due a Timoteo). Con ancora più ampie ragioni si distingue la Lettera agli Ebrei

2 “A che serve fratelli miei, se uno dice di avere la fede, ma non ha le opere? Quella fede può forse salvarlo?” (Gc 2,14), che sembra proprio il calco “al contrario” delle espressioni paoline sulla precedenza della fede rispetto alle opere

3 Tale è ad esempio il cosiddetto “romanzo Pseudoclementino”, nel quale compare un grande eretico che ha venduto l’eredità di Cristo ai pagani – che rimanda con forte probabilità proprio alla figura di Paolo o ai suoi trasmettitori.