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Spunti di riflessione (PG.Saviola)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 5/08


  Anche in occasione dell’Anno Paolino, che sta mettendo in luce la straordinaria ricchezza dell’Apostolo Paolo, potrà sembrare un po’ forzato presentarlo come migrante, quasi identificando questo suo particolare volto con quello dell’ “Apostolo delle Genti” (Rom 11, 13). Eppure non è difficile vedere riflessa proprio nella figura e nell’opera di lui non poche di quelle vicende esterne e soprattutto interiori che molti migranti, diciamo pure la grande maggioranza, vivono e soffrono sulla loro pelle.

E probabile che i migranti stessi non avvertano questa singolare corrispondenza e abbiano bisogno che qualcuno li introduca a scoprirla; ma, una volta scoperta, si farà forte in loro la voglia di scorrere le quattordici lettere di questo avventuriero di Cristo per le tante strade del mondo e quella sua biografica che è il libro degli Atti: proprio da queste fonti può avere conferma fino all’evidenza che lui, il migrante di oggi, può ritenere Paolo di Tarso suo compagno di viaggio. Ecco schematicamente alcuni tratti che fanno dell’Apostolo un migrante e per di più un apostolo dei migranti.

1 – Prima destinazione dei suoi viaggi apostolici, in particolare del primo viaggio, sono gli ebrei; prima tappa nelle tante città che attraversa è la sinagoga per l’incontro con quei figli di Abramo che una secolare diaspora aveva disseminato dalla Giudea e Galilea un po’ ovunque: questi ebrei sono i tipici emigranti di quel tempo e ad essi Paolo porta il primo annuncio del Vangelo. Qui cogliamo Paolo come apostolo per i migranti, e non per libera scelta, ma per un preciso disegno di Dio (cf. At 13, 46), presente anche in questo nuovo esodo, che è la diaspora nel mondo ellenista, non meno che nel primo esodo dall’Egitto o del secondo da Babilonia. Un pensiero molto incoraggiante per i migranti di oggi (poniamo naturalmente in primo piano i cristiani), perché trovano conferma che anche loro, figli della Nuova Alleanza, stanno vivendo una diaspora che rientra certamente nel piano provvidenziale di Dio, il quale non li guida da lontano ma da vicino. Anzi quanti scoprono che il loro migrare può diventare areopago di evangelizzazione, sentono riferito anche a sé il mandato missionario: “Andate in tutto il mondo. Sono con voi tutti i giorni” (Mc 16, 14; Mt 28, 20).

2 – Paolo, apostolo degli ebrei, è conosciuto, e si definisce lui stesso, soprattutto, come “Apostolo delle genti”. Se per raggiungere i suoi connazionali si fa migrante con i migranti, egli continua ad essere migrante anche per raggiungere la gente del posto, i popoli pagani. In tutte le tre fasi del suo programma di evangelizzazione lo si vede sempre in movimento, ha fatto della mobilità la sua regola di vita; solo il carcere gli dà qualche pausa. Qualche studioso ha cercato di fare il calcolo delle migliaia di chilometri che ha dovuto affrontare con i suoi piedi o con quei mezzi di fortuna che oggi ci è perfino difficile immaginare. Tale è la forza seducente della sua parola e del suo esempio che si trascina dietro collaboratori, migranti come lui: alcuni li colloca ad animare le giovani Chiese da lui fondate, altri li porta con sé, altri li manda avanti ad aprire altre strade al primo annuncio del Vangelo.

3 – Non si tratta di semplici spostamenti geografici; non basta cambiare sede o vestito o rapporti sociali per chi, “ebreo figlio di ebrei” (Fil 3, 5) si fa “tutto per tutti, per guadagnare a ogni costo qualcuno” (1 Cor 9, 22) e si sente “in debito verso i greci come verso i barbari… pronto ad annunciare il Vangelo anche a voi che siete a Roma” (Rom 1, 14–15). E necessario cambiare usi e costumi, adattare modi di approccio e linguaggio, insomma un cambiamento che tocca l’intimo della propria identità etnica e culturale, è un incominciare sempre daccapo. E quello sforzo di inculturazione, che è comune a tutti i migranti: a loro per legittime esigenze di integrazione nella società, a lui per l’imperativo categorico: “Guai a me se non annuncio il Vangelo!” (1 Cor 9, 16).

4 – E per il Vangelo ha da affrontare una serie interminabile di prove e di sofferenze: “viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericolo di briganti, pericolo dai miei connazionali,… pericoli nelle città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare,… disagi e fatiche, veglie senza numero, fame e sete” e la filastrocca continua (2 Cor 11, 26). Chiediamoci quale risonanza possono avere queste parole in emigranti e profughi che fuggono dalla disperazione affrontando anche loro le stesse identiche prove, quei “pericoli nel deserto, pericoli sul mare”, sui quali anche Benedetto XVI ha lanciato un accorato allarme l’ultima domenica di agosto.

5 – Non c’è dunque artificio nel rilevare interessanti analogie tra la figura del grande apostolo e la condizione esistenziale di questi nostri fratelli, specialmente di coloro che soffrono in forma più acuta il dramma dell’esodo forzato. Però se ci fermiamo qui, rimaniamo ai margini del fondamentale messaggio paolino, che può fare particolarmente breccia nel cuore dei migranti, se formulato come segue: “Voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio” (Ef 2, 19). Non è questa di Paolo una parola vagamente consolatoria, un invito a pazientare nella sofferenza in attesa di tempi migliori. Questa lapidaria asserzione va oltre la stessa esortazione di Pietro a transitare per questo mondo come “stranieri e pellegrini” (1 Pt 1, 1) alla maniera degli antichi padri che “vivevano da stranieri e pellegrini sulla terra... e aspiravano a una patria migliore” (Eb 11, 13.16). Anche Paolo ricorda che la nostra patria è nei cieli e invita a guardare le cose di lassù non a quelle di questo mondo. Ma egli fa un audace passo avanti e assicura che quei cieli già li tocchiamo con mano: una realtà non del tutto futura e che già la si può pregustare in anticipo, perché non domani ma già oggi siamo concittadini dei santi e della famiglia di Dio.

E un messaggio di speranza per tutti i cristiani, ma chi fa oggi dura esperienza di essere uno straniero guardato con indifferenza e diffidenza, chi si sente tanto pellegrino da vedersi relegato al margine senza diritti di cittadinanza in una cosiddetta “società di accoglienza” (amara ironia!), le parole di Paolo aprono uno sconfinato orizzonte di speranza.

Il diacono Filippo chiese a quel famoso etiope: “Capisci queste cose?”, si sentì rispondere: “E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?” (At 8, 31). Fortunati quei migranti che hanno al fianco il missionario o il diacono pronti ad istruire sulla bella notizia evangelica, ripetuta così bene da S. Paolo; tanto più fortunati se si incontrano e si inseriscono in una comunità cristiana che fa veramente sperimentare che già ora “nella Chiesa nessuno è straniero”, come piaceva ripetere a Giovanni Paolo II. Fortunate anche queste comunità se, aprendo braccia e cuore ai migranti, sanno cogliere l’altro invitante messaggio del grande Pontefice scomparso: “A questo crescente spostamento di gente la Chiesa guarda con simpatia e favore, perché in esso scorge l’immagine di se stessa, popolo peregrinante”.