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Molti un solo corpo: una comunità articolata nell'orizzonte dello Spirito (C.Simonelli)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 1/07


Fra tutte le immagini con cui ci si riferisce alla Chiesa, quella del corpo è una delle più imbarazzanti: per la sua fisicità, appunto, ed anche perché dà l’impressione di una realtà diversificata sì, ma estremamente compatta ed unitaria, in cui prevale la dimensione corporativistica su quella personale dei singoli credenti. I testi paolini che la presentano, tuttavia, introducono degli elementi essenziali, che connotano e dunque indirizzano anche gli esempi peraltro così simili ai modelli classici. Più noto fra tutti l’apologo di Agrippa1.

Nell’orizzonte dello Spirito

Il testo più chiaro da questo punto di vista è rappresentato dal capitolo 12 della 1Corinti:

«Riguardo ai doni dello Spirito, fratelli, non voglio lasciarvi nell’ignoranza. Voi sapete infatti che, quando eravate pagani, vi lasciavate trascinare senza alcun controllo verso gli idoli muti. Perciò, io vi dichiaro: nessuno che parli sotto l’azione dello Spirito di Dio può dire «Gesù è maledetto», e nessuno può dire «Gesù è Signore» se non sotto l’azione dello Spirito santo. Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune» (1Cor 12, 1-7).

Il brano è molto più lungo ed inoltre fa parte di una più ampia sezione che raccoglie attorno al tema dei “doni dello Spirito” o carismi  i capitoli 12-14. Già in questa prima pericope, tuttavia, compaiono gli elementi principali: l’azione dello Spirito in ognuno in riferimento a Gesù Cristo. Di questo siamo certamente profondamente convinti “secondo ortodossia”: forse più complesso è per ognuno pensare la chiesa e le sue articolazioni senza lasciar cadere una parte della questione, cioè considerando insieme il riferimento a quel Gesù, che non si può inventare, e nello stesso tempo allo Spirito che ci conduce a lui, che ne rende viva e vitale la memoria e che, proprio in questo modo e nello stesso tempo, mentre la tramanda, impedisce anche che la tradizione la tradisca.

La tradizione latina, di cui siamo figli nonostante la “crisi dell’occidente”, nella sua sobrietà, nel suo amore per la concretezza, nella sua attenzione per i temi feriali e verificabili dell’istituzione, pur nella formale professione di fede trinitaria, ha tra le righe sempre manifestato un certo sospetto per quanto, o forse meglio, per “quanti”, portava/no riferimento allo Spirito Santo, soprattutto se questo avveniva nel contesto di ipotesi di riforma o di riformulazione di compiti e ruoli. Certo la questione è spinosa e probabilmente ognuno potrebbe portare esempi anche molto semplici di come sia fin troppo facile proporre una qualsiasi idea e sostenerla con l’affermazione “me l’ha detto Dio…, me l’ha ispirato lo Spirito…”. Se questo è ovvio, tuttavia la tradizione cristiana ha sviluppato “fin dall’antichità” dei criteri di discernimento ed il rischio di fantasie sbrigliate che si propongono come ispirate non dovrebbe trovare impreparati e comunque non potrebbe essere motivo sufficiente per trascurare la dimensione carismatica della comunità ecclesiale. E certamente oggi non lo è, anche grazie a quell’attenzione a “respirare con i due polmoni”, dell’oriente e dell’occidente, più volte richiamata da Giovanni Paolo II. Un intervento dell’allora Ignazio di Laodicea nel lontano 1968 è diventato quasi un testo “cult” di questo orizzonte. è molto noto, ma la sua bellezza e pertinenza spinge a citarlo estesamente:

«Senza lo Spirito

Dio è lontano,

Cristo resta nel passato,

l’evangelo è lettera morta,

la Chiesa una semplice organizzazione,

l’autorità dominio,

la missione propaganda,

il culto una semplice evocazione,

e l’agire cristiano una morale da schiavi.

Ma in lui e in una sinergia indissociabile

il cosmo si solleva e geme le doglie del regno

e l’uomo lotta contro la carne,

Cristo risorto è vicino a noi,

l’evangelo diventa potenza di vita,

la chiesa segno della comunione trinitaria,

l’autorità servizio liberante,

la missione una Pentecoste,

la liturgia è memoria e anticipazione

e l’agire umano è divinizzato».

Lo Spirito Santo fa venire la parusia in un’epiclesi sacramentale e misticamente realista, dà vita ai profeti e parla attraverso di essi, ricolloca ogni cosa nel dialogo e nell’effusione di sé ci mette in comunione e ci attrae verso il secondo avvento. “Egli è Signore e dà la vita”. è grazie a lui che la Chiesa e il mondo invocano con tutto il loro essere: “Vieni, Signore Gesù»2.

In realtà questo stupendo quadro è insieme una grazia ed un compito: la grazia che Dio ci dona ed anche il compito che affida a tutti e ad ognuno, nello Spirito: perché la nostra vicenda si dipana come vocazione, fino “al secondo avvento”, per passare da “semplice organizzazione” a “segno della comunione”, da “un’autorità come dominio” ad “un’autorità come servizio liberante”, da una “missione come propaganda” a “una missione come Pentecoste” e così via.

In tutto questo e per tutto questo il Vangelo che non diventi “lettera morta” ma “potenza di vita” rappresenta anche il principale criterio di verifica, il cuore critico di ogni vita ed anche di ogni realizzazione ecclesiale. I testi giovannei sul “Paraclito” mostrano mirabilmente come l’azione dello Spirito non sia vista in opposizione alla persona ed alla vicenda di Gesù Cristo, ma in riferimento ad essa: “ ci sono altre cose di cui non potete portare il peso… vi ricorderà tutto quello che ho detto…”. Lo Spirito che soffia dove vuole e di cui non bisogna bestemmiare l’azione né spegnere la profezia, rimanda, forse sorprendentemente, a quel Gesù nato da donna, nato sotto la Legge, crocifisso fuori dalle mura con un supplizio infamante e risuscitato da Dio; alla sua comunione di mensa con i peccatori, al suo conflitto con l’istituzione religiosa del Tempio, al suo rendere presente e manifestare nella carne, e dunque nella storia, la vicinanza di Dio agli uomini e alle donne di ogni epoca e luogo.

La Chiesa è dunque chiamata a questo respiro, è in perpetuo cammino proprio perché radicata nel Cristo: suo corpo nello Spirito non nel senso, ovviamente, che ci sia equivalenza fra Chiesa e Cristo, ma nel senso opposto di una “diseguaglianza” totale: Gesù Cristo solo ne è fondamento, mentre la compagine della Chiesa, di tutti insieme e di ognuno, ha il suo luogo, la sua patria, il suo corpo, appunto, nel Cristo, che la precede in Galilea, che la chiama a sé, che continuamente, come Vivente, le mostra i segni della passione impedendole di immaginare un percorso “spiritualista” che abbia la tentazione di saltare la storia e le sue contraddizioni.

Anche nel testo paolino da cui abbiamo preso le mosse c’è un simile orizzonte, raccolto attorno all’affermazione che quel corpo spirituale è “di Cristo” e che questo è sperimentato nel battesimo. Dopo aver presentato alcuni dei “doni dello Spirito”, infatti, prosegue:

«Ma tutte queste cose le compie l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole. Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito» (1 Cor 12, 11b-13).

Il duplice rimando, perciò, alla dimensione pneumatologica e cristologica costituisce la vocazione battesimale di questo corpo, chiamato a tradurre nella storia le esigenze del Vangelo.

Vi precede in Galilea

Il “corpo” che raccoglie le comunità cristiane è dunque sempre, in certo senso, sbilanciato e chiamato “fuori dall’accampamento” (Eb 13,12-13): infatti è costantemente in stato di vocazione, è costantemente all’inizio di un percorso, perché è in stato di sequela: l’esser corpo di Cristo infatti lungi dall’essere privilegio è, appunto, sequela di Lui, in opere e parole.

Ogni esemplificazione di questa dimensione suona ovviamente scontata. Ma per dar voce anche all’ovvio, si può ricordare che il vangelo di Gesù Cristo invita, ad esempio, ad avere una parola franca e insieme misericordiosa. La franchezza ricorda le esigenze del Vangelo, la misericordia ne presenta la predicazione come annuncio di vita e non come minaccia di morte. Certo nei confronti del mondo moderno/post-moderno non si può annacquare il Vangelo: l’ingiusta globalizzazione, l’industria della guerra, la politica dei consumi che rende infelici i consumatori del nord e fa morire di fame e di scorie tossiche gli abitanti del sud, la ricerca di surrogati di felicità nelle cose e l’ottundimento della dimensione della spiritualità invocano parole franche e prassi coerenti.

Tutto questo insieme invoca però anche che nella sequela del Cristo i cristiani cerchino di far proprio il suo atteggiamento nei confronti del mondo, sia moderno, sia post-moderno o sia quello che sia: se il rigore diventa rigorismo, se l’annuncio diventa condanna, se la previsione diventa larvata minaccia di castighi e fallimenti… è il momento di fermarsi e fare qualche revisione.

Esortandovi gli uni gli altri

E questa prospettiva come atteggiamento costante in ordine alla sequela evangelica a richiedere la messa in comune di tutti i doni spirituali, variamente articolati: il testo della 1 Corinti, ad esempio, presenta in ordine quelli più pubblici ed impegnativi per l’esistenza stessa della comunità - nella caratteristica formulazione paolina3 - a quelli potremmo dire più gratuiti:

«Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi ci sono i miracoli, quindi il dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare varie lingue. Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti fanno miracoli? Tutti possiedono il dono delle guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano?» (1Cor 12, 28-30).

Ognuno di essi, tuttavia, è un dono dello Spirito in ordine a manifestare la precedenza di Cristo, il necessario permanere nel Vangelo, le esigenze della sequela ed il fascino della missione. Non è facile nel testo che stiamo percorrendo, a meno di forzature, far coincidere “bene” le scansioni ministeriali a cui siamo oggi nella nostra Chiesa abituati con questa predilezione per i profeti e con questa declinazione del ministero apostolico. Ma non è neppure necessario. Quello che risulta pertinente, invece, è la prospettiva di fondo: radicati in Cristo tutti e ognuno sono chiamati a ricevere e a propria volta a donare ai fratelli ed alle sorelle l’annuncio della Buona Notizia del Vivente, nello Spirito.

E risulta così importante questo farsi carico gli uni degli altri in ordine alla precedenza del Signore, che la chiesa ha ritenuto che sia necessario ordinare alcuni per compierlo stabilmente: non perché “più” qualche cosa (più bravi, più santi, più magici, magari… ), ma perché relativi all’identità stessa della Chiesa, chiamata a seguire il Signore ovunque vada.

Un elogio di corposa istituzione…

Certo una comunità unicamente legata alla libertà dei carismi potrebbe risultare estremamente affascinante. Forse anche lo è. Ma forse, al di là della inevitabile ragion di stato, ci sono anche buoni e laici motivi per apprezzare anche una struttura ordinata, riconosciuta dalla comunità e che alla comunità deve rendere ragione. Una conduzione estemporanea e carismatica potrebbe facilmente lasciar campo all’arbitrio: diversamente, le Scritture, la logica battesimale ed eucaristica, e in diversa misura la stessa tradizione ecclesiale di cui i ministri sono chiamati a mostrare la precedenza rispetto ai gusti personali, sono lì, disponibili sempre come criterio di verifica, come coscienza critica della storia, di tutta la comunità ma anche di chi vi esercita un ministero. Ancora, un’istituzione sa di essere nella storia e parte della storia, di essere all’interno di una cultura non solo per la lingua che parla, ma anche per il rapporto che ha con le strutture sociali, con i modi con cui si stabilisce o si nega il consenso, con la concezione del lavoro e del riposo e ha tutti gli antidoti per impedirsi di far passare le proprie scelte come “immediatamente” frutto dello Spirito.

Inoltre un’istituzione si dà anche dei criteri “intermedi” su cui poi è possibile compiere delle verifiche, senza, appunto, che la verifica sia impedita da pretesi sacralismi: ad esempio domandandosi come dar vita a comunità “abilitanti” e non infantilizzanti, a comunità in cui chi svolge un servizio di autorità è chiamato ad esercitarlo per autorizzare esperienze evangeliche, di comunità in cui il discernimento dei doni esistenti - umane competenze e carismi dello Spirito - possa diventare una “buona abitudine come un abito”, cioè una ministeriale virtù.

…ma non come Menenio Agrippa

Tornando dunque all’esempio del corpo ed al suo sfondo classico, come quello riportato nell’apologo di Menenio Agrippa, possiamo perlomeno mostrare accanto alla somiglianza anche la notevole differenza: quel racconto aveva un intento politico che era quello di convincere il popolo, la plebe appunto, che il loro contributo era fondamentale e che perciò era bene che rimanessero tali e anche buoni e anche collaborativi ed anche grati di essere un piede o un’unghia del bell’organismo di cui i patrizi rappresentavano, chissà, testa e cuore. Ma, si potrebbe dire parafrasando il Vangelo, “tra voi non così…”.

Il riferimento all’unico Spirito ed all’unico Signore Gesù Cristo invalida di per sé una lettura di questo tipo e obbliga a leggere l’esempio del corpo articolato non come mistificante contentino ma come annuncio di vita nuova in Cristo: “non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio né femmina, perché tutti voi siete una cosa sola, in Cristo Gesù” (Gal 3,28). Come dono, ma anche come compito e come vocazione, portata in vasi di terra. Ma il Signore ci precede.