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Intervista a mons. Cantisani sul problema delle migrazioni


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 1/04


INTERVISTA A MONS. CANTISANI SUL PROBLEMA DELLE MIGRAZIONI
Accogliendo il vivo auspicio formulato dalla X Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi, svolta nell’ottobre del 2001 sul tema Il Vescovo ministro del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo, il Santo Padre ha concesso alle Presidenze delle Conferenze Episcopali nazionali la facoltà di nominare un Vescovo emerito in ciascuna Commissione Episcopale per valorizzare la loro competenza ed esperienza.La Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), avvalendosi volentieri di tale facoltà, nella sessione del 22 settembre scorso ha proceduto a designare S.E. Mons. Antonio Cantisani, Arcivescovo Emerito di Catanzaro-Squillace, quale membro della Commissione Episcopale per le Migrazioni (CEMI). Per la Migrantes è quindi una ricchezza avere al suo fianco una persona illuminata e competente in un campo di costante attualità e spesso segnato da tragici e allarmanti risvolti.Mons. Cantisani, qual è, secondo Lei, la vera sfida che la Chiesa Cattolica in Italia deve raccogliere all’interno del fenomeno delle migrazioni?è soprattutto all’interno del fenomeno delle migrazioni che la Chiesa Cattolica in Italia (e nel mondo intero!) si gioca la sua credibilità. La Chiesa, infatti, esiste per evangelizzare, per annunziare la buona notizia dell’amore di Dio per l’uomo, per ogni uomo, nella concretezza delle situazioni. Tradirebbe la sua missione se con la parola (occorre anche parlare con franchezza!) e soprattutto con l’azione non fosse presente là dove la persona umana con i suoi diritti - universali ed inviolabili - rischia (e molto spesso purtroppo è la realtà) di essere vilipesa. Con l’Incarnazione, il Figlio di Dio si è unito ad ogni uomo. Nei più poveri però c’e una sua speciale presenza che impone un amore preferenziale. D’altra parte, attraverso la sua presenza nel mondo delle migrazioni la Chiesa vive con particolare pienezza la sua vocazione di sacramento d’unità del genere umano. è proprio con i migranti e tra i migranti che alle comunità cristiane viene offerta una nuova opportunità per vivere l’esperienza della cattolicità, dell’universalità, che è una “nota” essenziale della Chiesa, sinceramente aperta a tutto ciò che è opera dello Spirito in ogni popolo di ogni nazione, di ogni razza, di ogni etnia, di ogni cultura, di ogni religione.Tra le persone particolarmente in necessità vi sono i forestieri più vulnerabili; vale a dire i migranti senza documenti, i profughi, coloro che hanno bisogno d’asilo, i profughi a causa di persistenti, violenti conflitti in molte parti del mondo e le vittime - in maggioranza donne e bambini - del terribile crimine che è il traffico di esseri umani: quali impegni indicherebbe ai singoli cristiani e alle comunità locali rispetto all’urgenza dell’accoglienza e della promozione di tali persone?Il traffico di esseri umani è un terribile crimine e quanti se ne rendono responsabili vanno duramente colpiti. Ma quelle persone di cui alla domanda vanno accolte con ogni umanità possibile, e, aggiungo, con un’attenzione tutta particolare perché sono più “vulnerabili”. C’è da pensare subito agli interventi di prima emergenza (dal vestiario, al vitto, alle medicine, ecc.). Al riguardo occorre dire che la nostra gente è stata sempre molto generosa, imponendosi all’attenzione del Paese. Non bastano ovviamente questi primi interventi: ci vogliono centri di accoglienza che offrano vari e validi servizi. Per tale motivo, anche se va apprezzata la generosa spontaneità dei singoli, devono essere le comunità parrocchiali ad organizzarsi. C’è poi da promuovere e diffondere il più capillarmente possibile centri di ascolto e centri dove si è capaci di dare informazioni, di seguire le pratiche burocratiche e di assicurare assistenza legale. Specialmente oggi quanti sbarcano sono immediatamente raccolti in centri o campi di accoglienza: c’è da stare davvero attenti perché questi non diventino dei lager. Ma c’è da fare di più soprattutto allo scopo di ottenere leggi, provvedimenti e relative interpretazioni che diano risposte adeguate a chi arriva da noi perché ha bisogno di pane, di lavoro, di libertà anche sul piano religioso, di una vita umana veramente dignitosa. è vero tutto questo soprattutto ai fini della promozione delle persone che arrivano da noi: solo così gli immigrati più che un problema per il nostro Paese saranno una risorsa.In che modo la prassi dell’accoglienza cristiana può ispirare una legislazione giusta per il nostro paese e che sappia mettere al centro gli interessi di tutte le persone coinvolte (ospitate e ospitanti)?La legge ha anche una funzione “pedagogica” nel senso che deve indicare i valori che occorre vivere per costruire una società più umana e più armonica, ma ordinariamente recepisce ed esprime ciò che pensa la maggioranza. Solo se la prassi dell’accoglienza cristiana è vissuta capillarmente da tutte le comunità cristiane, sarà facile ottenere leggi più giuste. A proposito di leggi, erano più che fondate le critiche alla legge Bossi-Fini, tanto è vero che sono centinaia le eccezioni dì incostituzionalità presentate alla Consulta. E vero che, anche per le pressioni di non poche associazioni, si sono ottenuti con quella legge dei risultati positivi, come, la regolarizzazione di oltre 600.000 immigrati (che si sia ottenuto il blocco dei clandestini è purtroppo un problema più complesso), ma occorre andare avanti. C’è, per esempio da fare di più per assicurare un soccorso più tempestivo, oggi in ritardo rispetto alle effettive esigenze ed alle nostre possibilità, c’è da regolare al più presto con procedure uniformi il diritto d’asilo, c’è da riprendere la questione degli sponsor (e penso tra l’altro alle aziende per quanto riguarda la ricerca di manodopera nei paesi di emigrazione, dopo aver esplorato invano il mercato interno del lavoro), c’è da rivedere le norme che riguardano il carcere per quanti rientrano irregolarmente (morire di fame non è un reato). Sono solo degli esempi. Non bastano le leggi: conta la cultura che riusciamo a diffondere appunto con la nostra prassi di accoglienza.A tal proposito qual è la sua opinione sul “voto agli immigrati”?Evidentemente favorevole. Mi auguro che, superando ogni tentazione di strumentalizzazione politica, si arrivi presto a qualcosa di concreto. Mi si consenta di ricordare che avevo parlato di voto amministrativo agli immigrati più di 10 anni fa. Negli Orientamenti Pastorali per l’immigrazione, redatti sotto la mia Presidenza nel 1993 dalla Commissione della Conferenza Episcopale Italiana, già si diceva che ai fini di una effettiva integrazione dell’immigrato si doveva favorire, tra le altre cose, anche “l’integrazione sociale a tutte le forme di partecipazione alla vita della comunità di accoglienza, compreso il diritto al voto nell’ambito amministrativo”. Certo, è un passo avanti, da inserire comunque in una politica organica - organica, dico - finalizzata all’integrazione degli immigrati.Vorrei piuttosto aggiungere che, a questo punto, si potrebbe giungere presto al voto politico. Certo, tale voto è legato alla cittadinanza. Ma - come nota qualche illustre giurista - si può intervenire sulla legge per la cittadinanza con procedura ordinaria, e così, una volta ottenuta la cittadinanza, il voto amministrativo e politico diventa un fatto automatico. Temo anch’io che l’iter parlamentare per una proposta di natura costituzionale come quella fatta di recente, potrebbe esser lungo, e non vorrei che servisse da perditempo. E già, comunque, un fatto positivo che il problema sia stato posto con sufficiente determinazione.La reciprocità nei rapporti tra “diversi”, nel nostro caso, di quali regole di vita ha bisogno?Faccio semplicemente un elenco di queste regole. Il rispetto, innanzitutto, compreso quel diritto fondamentale che è la propria identità culturale: agli immigrati viene riconosciuto e garantito fra l’altro il diritto di professare in pubblico e privato la propria fede, anch’essi però sono tenuti a rispettare le leggi del Paese che li accoglie, il nostro sistema democratico, la cultura, le tradizioni. La conoscenza, poi: tante incomprensioni e tensioni sono dovute al fatto che non ci si conosce. Il dialogo, soprattutto: via ineludibile in una società sempre più pluralistica e multiculturale (e mi riferisco anche al dialogo che si instaura nella vita di ogni giorno: nelle vie, nelle piazze, nei luoghi di lavoro, nelle scuole ed in ogni tipo di ambiente). Aggiungo ovviamente la collaborazione: insieme possiamo e dobbiamo costruire una società più giusta, un Paese più solidale, una Chiesa veramente cattolica. Non va dimenticato che la “diversità” è una ricchezza. Utopia, dirà qualcuno. Ma, di certo, è il progetto di Dio sulla storia. A noi il compito di fare la nostra parte. Tanto più ci riusciremo quanto più sapremo vivere la nostra identità cristiana. Ho sempre sostenuto che non è l’Islam che ci deve far paura quanto il fatto che non sempre viviamo pienamente il Vangelo. La presenza in mezzo a noi di tanti fratelli di religione diversa è uno stimolo per una fede più pensata, consapevolmente accolta e coerentemente vissuta.La storia della maggior parte delle famiglie in Calabria è segnata dalla emigrazione, un fenomeno che è diventato un elemento della memoria di un popolo e che ha condizionato notevolmente lo sviluppo e le vicende della Calabria. L’accoglienza e l’integrazione per la nostra gente rischia di fondarsi, però, o su una sorta di ricatto morale “anche noi un giorno emigrammo...”, o sullo sterile adempimento ad un comando evangelico o su una docilità storica” (in fondo la nostra terra è sempre stata oggetto di invasioni e di dominazioni nei secoli passati) che rischia di diventare insensibilità al problema. Secondo Lei, perché noi calabresi dobbiamo accogliere?Sinceramente, non parlerei di insensibilità da parte dei calabresi, come peraltro ho detto prima. Occorre piuttosto che venga fatto tutto il possibile perché siano responsabilmente accolti e pienamente vissuti i valori che scaturiscano da quei fatti che secondo la domanda fondano l’accoglienza. è la loro ricchezza di umanità che porta i calabresi ad essere aperti, considerando gli immigrati non “merce”, bensì uomini e donne che hanno una storia, una cultura e, quel che più conta, una speranza. Una speranza di vita, soprattutto.Nessuno può negare che, per la presenza del Cristianesimo nella nostra regione fin dall’inizio della sua storia, il Vangelo sia entrato nel DNA dei calabresi. Una donna di un paese della nostra Calabria, alla quale fu chiesto perché partecipava ad una manifestazione a favore di una musulmana che aveva ricevuto il foglio di via, rispose: “Ma anche lei è figlia di Dio!”. Danno una forte carica le famose parole del Vangelo: “Ero straniero e mi avete accolto…Tutto quello che avete fatto ad uno di questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me”.Il fatto, poi, che noi calabresi emigrammo (e purtroppo continuiamo ad emigrare) ci aiuta senz’altro a capire il dramma di quanti sono costretti a lasciare la loro terra, come ci aiuta ad essere aperti il fatto che abbiamo avuto lungo i secoli la presenza di culture diverse con le quali abbiamo convissuto metabolizzandone tanti aspetti positivi. Anche per la sua posizione geografica al centro del Mediterraneo, la Calabria può, deve, e, io ne sono certo, vuole essere con lo stile di vita dei suoi abitanti, fatto non solo di calore umano ma anche di fattiva solidarietà, segno di speranza per i popoli tutti. Riceviamo spesso messaggi dai toni allarmistici e catastrofici che invitano a stare attenti a queste “maree di immigrati” e a queste “masse di derelitti disposte a tutto”. Mons. Cantisani, ma a cosa bisogna stare veramente attenti?Fanno dispiacere certe espressioni: e come è grave soprattutto parlare di “masse di derelitti disposte a tutto”! Provo vergogna a ripeterle, tali parole, dinanzi a quei genitori che, dopo chilometri e chilometri di viaggio impossibile attraverso il deserto, sono riusciti ad imbarcarsi su una vecchia carretta in un porto della Tunisia e della Libia, ma durante il tragitto verso l’Italia hanno visto i loro figli morire per fame o assideramento, e sono stati costretti a gettarli in mare. Non venivano verso l’Europa per imporci l’Islam. Non venivano a fare i terroristi.Parliamoci chiaro: nonostante tutte le “chiusure” gli immigrati continueranno a venire. E un fenomeno che durerà ancora a lungo. Occorre affrontarlo più seriamente. Ci vogliono, certo, intese con i paesi da cui questi immigrati provengono. Bisogna darsi da fare per arrivare in Europa ad una politica migratoria unitaria. Ma non facciamoci illusioni. Si dice che 1.500.000 di africani sono pronti ad avventurarsi verso le frontiere d’Europa. Accogliamoli pure: non sarebbe difficile in tutta Europa. E dopo? Bisogna andare alle radici del problema. E urgente una politica di cooperazione internazionale allo sviluppo radicalmente nuova. Già 40 anni fa il Beato Papa Giovanni affermava che le comunità politiche economicamente sviluppate devono instaurare “rapporti di cooperazione con le comunità politiche in via di sviluppo economico”, ed aggiungeva che i poteri pubblici della comunità mondiale devono proporsi come “obiettivo fondamentale” il “bene comune universale che non può essere determinato che avendo riguardo alla persona umana”.E invece? Invece, persistono meccanismi perversi che fanno sì che i poveri diventino sempre più poveri ed i ricchi sempre più ricchi. Non si riesce a portare nei paesi poveri nemmeno i corsi di formazione pure approvati dal Parlamento Europeo. Nel 2003 sono i paesi poveri che hanno versato più denaro a quelli ricchi come ha denunziato il segretario dell’ONU Kofi Annan e riferito il 1° Novembre da L’Osservatore Romano. E scandaloso che attualmente i paesi ricchi dedicano 56 miliardi di dollari l’anno alla cooperazione e 800 miliardi alla difesa. A che cosa, allora, bisogna stare veramente attenti? Che cambi la politica mondiale, anche perché è nell’interesse di tutti. “Se l’ONU si modellasse su Papa Giovanni”, ha intitolato nel mese scorso Avvenire un servizio sulla Pacem in Terris: come auspicava il Papa, “i singoli esseri umani trovino in essa una tutela efficace in ordine ai diritti che scaturiscono dalla loro dignità di persone”.Nessuno venga fuori a dire che noi non possiamo farci niente. L’opinione pubblica conta, eccome! Se, come scriveva Paolo VI, l’idea di pace - di quella pace che è il frutto della giustizia - diventa idea di popolo, coscienza di popolo, dell’opinione pubblica, questa “governerà i governanti”.RingraziandoLa per la cordiale disponibilità, Mons. Cantisani, per finire, ci racconti un episodio che possa contenere il senso di questa nostra chiacchierata.Più che raccontare un episodio vorrei semplicemente dire che ho sentito nel cuore una gioia tutta particolare quando ho deciso di inserire nel Consiglio Pastorale Diocesano un immigrato cosiddetto extracomunitario: un operaio della Costa d’Avorio. D’allora ho pensato che la mia Chiesa annunziava più chiaramente quel Gesù Cristo che è l’unico ed universale Salvatore.