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La chiesa nella loro casa
Una memoria per il futuro

Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 1/04


LA CHIESA NELLA LORO CASA
UNA MEMORIA PER IL FUTURO
di Cristina Simonelli
In questo nostro tempo e in questo nostro “mondo che cambia” (cfr CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia) siamo chiamati a riformulare anche la nostra comprensione della comunità ecclesiale e della sua organizzazione. Dei cambiamenti di questa epoca sono parte certamente gli spostamenti di popoli, che fanno sì che il concetto di “post-moderno” si colori di multietnicità: chi si trova a contatto, per vita e per ministero, con il contesto migratorio rappresenta senza dubbio una grande risorsa per tutta la comunità ecclesiale, come testimone privilegiato, antenna sensibile di questa epoca e delle sue mutazioni.In questa ottica, in cui una questione di attualità ci invita a proiettarci nel futuro, cosa possiamo chiedere alla storia? E dove comincia la “storia” della chiesa, possiamo leggere i testi biblici anche in questo senso, per avere delle indicazioni storiche? Senza nessuna pretesa di esaustività, individuerei alcuni spunti dal Nuovo Testamento, letto come fonte storica, e poi dalla tradizione posteriore, per tornare in conclusione ai testi biblici, questa volta nel loro senso forte di cuore critico e vincolante per il nostro oggi ecclesiale.Priscilla e Aquila: una casa, una chiesa“Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù; per salvarmi la vita essi hanno rischiato la loro testa, e ad essi non io soltanto sono grato, ma tutte le chiese dei Gentili; salutate anche la chiesa che si riunisce nella loro casa”(Rom 16,3-5). Così Paolo, in un capitolo denso di nomi propri di uomini e di donne, saluta una delle coppie di evangelizzatori più famosi, gli stessi di cui parlano gli Atti: riferisce infatti Luca, che Paolo da Atene si reca a Corinto, incontra i due, espulsi da Roma per una legge (antenata delle nostre...) dell’imperatore di turno e si ferma in casa loro perché i tre stranieri, nel paese, fanno lo stesso lavoro per vivere. Insieme poi si spostano in Asia minore, a Efeso e la coppia si ferma e lì prosegue il proprio ministero, mentre Paolo continua altrimenti il suo percorso (cfr Atti 18). Questi non sono gli unici riferimenti a quelle che vengono chiamate “chiese domestiche”: anche se il nostro immaginario è abituato a pensare “un paese e una costruzione che è la chiesa-parrocchia”, meglio se con un evidente campanile, il primo dato che ci presentano questi testi, dato confermato dalla letteratura cristiana dei primi secoli, è che il “luogo” fondamentale di riunione e di pratica ecclesiale sono le case dei cristiani.Questo non determina solo un diverso “paesaggio”, ma indica un particolare tipo di relazioni: cosa può significare interpretare la propria vita quotidiana e familiare come chiesa che si fa accogliente ed annunciatrice? Può questa figura di chiesa aiutare le nostre comunità a formulare un diverso rapporto tra chiesa e territorio, un diverso modo di concepire le relazioni ecclesiali, un diverso modo di pensare la lettura critica della realtà e l’accoglienza di chi arriva da altri paesi?Stranieri residenti nei primi secoli cristianiDi fatto il dato appena ricordato sottolinea anche un altro aspetto della questione: nei primi secoli, all’interno dell’Impero romano, i cristiani sono avvertiti come “stranieri”, come “barbari”: il decreto di espulsione già menzionato, si accorda con i dati successivi. Possiamo ricordare, ad esempio, che Taziano, ancora nel II secolo, scrivendo “ai Greci”, dice polemicamente: “O greci, queste cose ho scritto per voi io, Taziano, filosofo al modo dei barbari, nato nella terra degli Assiri, educato prima secondo le vostre dottrine, poi secondo quelle che ora professo di predicare” (Discorso ai Greci, 42).Le comunità perciò, le “chiese nelle case”, si trovano confrontate con la necessità di elaborare strategie di convivenza fra culture diverse, di sperimentazioni di comunità miste che possano esprimere radicamento insieme ad estraneità, fraternità nella fatica di trovare linguaggi comuni. Ne fanno fede testi come Efesini, Ebrei, la 1 Pietro: “Pietro apostolo di Gesù Cristo, ai fedeli dispersi... carissimi vi esorto come stranieri residenti (paroikoi) e pellegrini (parepidêmoi) ... (1Pt 1,1; 2,11)Efesini dice una cosa simile, ma nello stesso tempo aggiunge dei particolari: “non siete più stranieri-estranei (xenoi) e stranieri residenti ma siete pienamente concittadini (synpolitai) dei santi e “familiari di casa” (oikeioi) di Dio, costruiti come casa sul fondamento...” (Ef 2,19). Componendo i due testi abbiamo due sottolineature importanti: l’esperienza concreta di “essere stranieri” fa comprendere che questo atteggiamento è positivo, perché dice che sola vera patria può essere il Vangelo e questo diventa una dimensione spirituale. Nello stesso tempo però dicono che per chi scrive questo fatto non può essere inteso come “estraneità” e disinteresse verso la terra in cui vivono, né come estraneità nella casa-chiesa.Pur con qualche differenza di vocabolario, è soprattutto xenos che indica lo straniero/estraneo, con valenza negativa: i cristiani, dicono questi scritti, non devono sentirsi così rispetto al paese in cui sono “residenti con un soggiorno temporaneo ” e nessuno deve essere “xenos-estraneo” nella comunità. è invece l’altro termine, par-oikos, ad assumere in modo privilegiato una valenza positiva e spirituale. Questa parola porta in sé il termine “casa” e vuol dire “straniero residente, quello che abita presso”: e questo ci interessa particolarmente, essendo, è chiaro, proprio l’antenato del termine “parrocchia”: “nel tempo del vostro abitare qui come di passaggio (1Pt 1,17) è in realtà “nel tempo della vostra paroikia...”.Questo è un termine importante anche nella letteratura cristiana posteriore, che non fa parte del canone biblico: “La chiesa di Dio che da straniera è residente a Roma alla chiesa di Dio che da straniera è residente a Corinto...”, è il noto incipit della lettera detta di Clemente Romano (fine I secolo). Non diversa l’intestazione della lettera che scrivono Policarpo e i presbiteri di Smirne: “alla chiesa che dimora come “straniera residente” a Filippi...”.Ancora è termine chiave in un testo molto famoso, anche perché ha sostenuto tanta spiritualità di presenza solidale e discreta negli anni intorno al Vaticano II, l’A Diogneto (II secolo): “Ogni patria è per loro terra straniera, ed ogni terra straniera per loro è patria, di tutto si fanno carico come cittadini, ma in tutto sono stranieri residenti”. Cioè sono pienamente solidali con la città degli uomini e delle donne, con la loro storia e le loro storie, ma la loro “patria” è il Vangelo: non nel senso di una fuga verso “i cieli”, al di sopra delle parti e delle sofferenze, al di là dei tempi, ma nel senso che ogni realizzazione civile e politica che pur li interpella e li appassiona, non è mai una totale appartenenza, ma è giudicata da quel cuore critico che è il Vangelo con le sue esigenze. Il che, è chiaro, vuol dire sostituire il pensiero evangelico, la grande scena del “giudizio” di Mt 25, per capirci, ad un pensiero tribale (i nostri contro i vostri), sempre pronto a riaffacciarsi...Sei tu così paroikos...?Se dunque abbiamo utilizzato alcuni testi biblici come fonte di informazione sulla situazione delle prime comunità cristiane, in relazione al loro ritrovarsi nelle case e al loro collocarsi rispetto al territorio, possiamo adesso tornare a condividere il Nuovo Testamento nel senso forte che ha per le chiese, di Evangelo. Il viandante straniero che si sente rivolgere con un po’ di polemica e un po’ di sufficienza questa domanda è uno sconosciuto che cammina verso il villaggio di Emmaus e si avvicina ad altre due persone: “solo tu paroikeis...?” (Lc 24, 18).Questo riferimento alla presenza del Risorto, solidale compagno di strada, viandante estraneo agli schieramenti di uomini contro uomini, ci richiama ad un principio-riforma per le nostre comunità ecclesiali che va ben al di là di una verniciatina di novità su strutture stantie. Potrebbero i testi evocati essere cuore ardente e pulsante delle nostre parrocchie perché diventino case-chiese, disposte ad accogliere e a sentirsi non padrone ma a propria volta ospiti? Potrebbero le nostre comunità essere il luogo dove nessuno è xenos, ma tutti e tutte possiamo diventare paroikoi, solidali e pacifici, presenti ma non arroganti?Potrebbero, certo: come meta e come forza, per il dono dello shalom soffiato dal risorto (Gv 20,19), dono messianico di nuova creazione, accordato e nello stesso tempo sempre davanti a noi, come il viandante di Emmaus. Di fronte a questa forza che non ha armi, di fronte a questa appartenenza che non sa confini, di fronte a questo soffio che apre Babele in Pentecoste, possiamo ancora dire: “ma non ci bruciava forse il cuore mentre quello Straniero ci spiegava le Scritture?...”.Sentimento che ci rimette sulla strada, perché ci convoca ad una permanente “purificazione della memoria”, unico modo in cui possiamo essere accolti nella verità, come peccatori perdonati, presso Dio, “costruiti come una casa” per mezzo dello Spirito (Ef 2, 18.22).